«Concetto Marchesi faceva lezione nell’aula più grande del Liviano. (…) Gruppi di appassionati d’altre facoltà venivano apposta per vederla, molti altri venivano per sentire la parola “tirannico”. Un brivido semi-clandestino passava per l’aula ogni volta che Marchesi trovava modo di pronunciarla: tanto piccolo era allora il raggio della resistenza culturale al regime”». Così Luigi Meneghello, studente a Padova nei primi anni quaranta, restituisce in Fiori italiani (capitolo 5) il clima di un’epoca: consenso (molto), fronda (poca), conformismo, e però ristretti margini di libertà. Un’epoca in cui frequentare un ateneo dove insegnavano celebrati «maestri» poteva essere un’esperienza fortissima. C’erano parecchie illusioni, dietro tutto questo, circa il ruolo della cultura nel regime. La guerra le avrebbe presto dissipate: l’estate del ’43 ne segnò il collasso.
Dopo la caduta del fascismo, il latinista (e comunista) Concetto Marchesi divenne rettore a Padova per nomina «badogliana», succedendo al compromesso archeologo Carlo Anti. Rimase in carica anche dopo il costituirsi, in settembre, della Repubblica Sociale Italiana. Il frangente era difficilissimo. Proprio a Padova aveva sede il Ministero dell’educazione nazionale, retto dal gentiliano Carlo Alberto Biggini (1902-’45): ne derivò un precario equilibrio. La direzione del partito comunista avversò la scelta di Marchesi, ritenendola un compromesso inaccettabile. Durò poco. Dopo alcune frizioni con gli occupanti tedeschi, la crisi maturò nell’autunno, all’inaugurazione dell’anno accademico, il 9 novembre. Dopo aver fatto allontanare dal palco delle autorità accademiche gli studenti con la divisa della milizia fascista, Marchesi tenne il suo discorso in un clima tesissimo.
Questo e altri suoi interventi rimasti celebri, sono stati riconsiderati con equilibrio e precisione filologica da Emilio Pianezzola, il latinista padovano recentemente scomparso (Concetto Marchesi, Gli anni della lotta, Il Poligrafo, pp. 101, euro 15,30). Il discorso del rettore non aveva i «versetti corruscanti» che, come ricorda Meneghello, caratterizzavano le lezioni e i libri di Marchesi. Era teso e solenne, ribadiva l’inviolabilità dell’Università quale «tempio» e rivendicava la rinascita dell’Italia: a essa, placata la furia bellica, le forze unite dello studio e del lavoro avrebbero ridato dignità e forza. C’era poi una sapiente ambiguità. I repubblichini potevano credere (o fingere di credere) che l’insistenza sul tema sociale, di valenza ideologica esplicita, richiamasse le confuse dottrine della Repubblica fascista. L’impressione tra i presenti, testimoniata da pagine di diario, fu diversa, e di grande entusiasmo: vi colsero un appello di libertà. Ma il paradosso non era tollerabile: il caso padovano fu evocato al tumultuoso congresso del Partito Fascista Repubblicano a Verona (14-15 novembre). Marchesi rassegnò le dimissioni a Biggini il 30 novembre, e diramò un vibrante «Appello agli studenti»: nell’impossibilità di tenere l’Università come «asilo indisturbato di libere coscienze operose», e di fronte al tradimento operato dalle generazioni precedenti, era ormai necessario che studenti e operai e contadini s’impegnassero per «rifare la storia dell’Italia e costruire il popolo italiano». Incombendo l’arresto, entrò poi in clandestinità e riparò in Svizzera.
Dall’esilio, Concetto Marchesi proseguì nel supporto alla Resistenza. Un suo deciso attacco contro le ambigue spinte riconciliatrici di Gentile, che miravano a indebolire la scelta a favore della lotta partigiana (gennaio 1944), apparve poi, rielaborato da altri in un punto decisivo, come l’ufficiale «condanna» del filosofo, ucciso pochi mesi dopo in circostanze di cui ancora animatamente si discute. Destinatari degli scritti di Marchesi erano soprattutto i giovani. A loro fu indirizzato nel maggio del 1944 un appello, che riconsiderava la storia d’Italia, additando esplicitamente nella borghesia il nemico da battere. Ma anche alla «casta della cultura» lo studioso di Seneca e Tacito rivolgeva parole durissime, accusando gli intellettuali di aver nei secoli «istruito i principi a ben governare, mai i sudditi a riscattarsi dal malgoverno; i ricchi a non insuperbire dei beni di fortuna, mai i poveri a sollevarsi dalla miseria». Contro la cultura della dissimulazione, Marchesi rivendicava il ruolo di un’arte e di una scienza capaci di recare pace e libertà, ma dopo una svolta radicale: «La vecchia classe dirigente dovrà tutta sparire» e «ogni potere dovrà passare al proletariato», unica forza sana e risanatrice. Nella primavera del 1945, nuovo «Appello agli studenti» perché università, officine (troppo classicista era Marchesi per poter dire «fabbriche») e campi si unissero nella lotta finale di liberazione. E finalmente, nel maggio, il ritorno al Rettorato patavino, ancora con un messaggio agli studenti, invitati a non dimenticare le spinte di rinnovamento cedendo a pacificazioni che celavano invece «accomodamenti» e «dimenticanze»: era l’ora delle epurazioni, e all’amnistia Togliatti mancava ancora un anno. Marchesi avrebbe poi svolto un importante ruolo come parlamentare del Pci (al centro del profilo tracciato da Luciano Canfora nel Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 69, 2007)
Riletti a distanza, e accompagnati dalle precise analisi di Pianezzola, i testi di Marchesi rivelano un’energia morale intatta, che va oltre i condizionamenti ideologici e taluni tratti stilisticamente datati. Una forza inimmaginabile oggi, quando l’alternativa sembra essere insulto o melassa. Resta però, dopo l’ammirazione, una domanda, quella che Meneghello pone dopo aver riconosciuto in Marchesi, nei suoi scritti e nelle sue lezioni, un paradigma affascinante e durevole: «E allora, perché non siamo migliori di quello che siamo?».