Siciliano di Palermo, 37 anni, Marco Assennato ha deciso nel 2009 di trasferirsi in Francia dove oggi vive e insegna. «Faccio il ricercatore precario, sto finendo un secondo dottorato, mi occupo di filosofia e architettura e ho dei contratti precari di insegnamento in varie università parigine», spiega al telefono.

Perché ha deciso di trasferirsi?
Per le migliori condizioni di lavoro che offre la Francia. Dopo il dottorato in Italia avevo avuto piccoli contratti di insegnamento all’università di Palermo dove quando sono finiti i soldi mi è stato proposto di continuare a insegnare a titolo gratuito. Mi è sembrato impensabile accettare e quindi sono venuto via. Arrivato a Parigi come tutti anch’io ho fatto diversi lavori, per nulla legati alla ricerca, fino a quando mi sono detto che era il caso di non buttare via gli studi che avevo fatto. Ho iniziato quindi un secondo dottorato e cominciato la vita del precario della ricerca.

Quanto tempo ha impiegato a trovare il lavoro per cui ha studiato?
Circa un anno, un anno e mezzo. Con una differenza fondamentale: che a parità di condizioni di precarietà, in Italia per insegnare ero pagato più o meno sei euro l’ora, qui in Francia invece guadagno intorno ai 50 euro l’ora. Per quanto precario, qui ho trovato una condizione di lavoro retribuito.

Quindi alla fine non è pentito di aver lasciato l’Italia?
Per me è stata una scelta positiva. Anzi sempre pensato che avrei dovuto farlo prima.

La Francia offre più opportunità rispetto all’Italia?
Anche se sempre meno riconosciuto e sempre più sotto attacco, in Francia vige ancora il principio per cui il lavoro deve essere pagato. Penso di poter dire che in Italia invece questo principio è saltato da tempo, soprattutto in questa fascia di ricerca cognitiva, di lavoro intellettuale che invece nel senso comune è considerato privilegiato. In Italia ci sono molti giovani ricercatori che lavorano, insegnano, scrivono solo che a differenza dei loro colleghi europei non sono retribuiti. L’università italiana, che tutti accusano di essere vecchia, si regge in realtà su un esercito di lavoratori non retribuiti che sono altrettanti giovani e capaci dei loro colleghi europei. Se tutti questi smettessero di lavorare da un giorno all’altro l’università italiana non potrebbe neanche più aprire le porte.

Consiglierebbe a uno di loro di fare le stesse scelte che ha fatto lei?
Sì perché penso che sia un’esperienza positiva. Credo però che sia urgente un riconoscimento reciproco di un enorme pezzo del mondo del lavoro che vive tutto più o meno in queste stesse condizioni. Il modello di lavoratore intellettuale precario e non pagato nasce lì ma si estende poi progressivamente a tipi di lavoro del tutto diversi.

Non pensa che anche in Francia le cose possano cambiare in peggio?
In Francia come in tutta Europa la condizione dei precari può peggiorare a causa di tutte le spinte nazionalistiche dilaganti nel continente. Proprio oggi leggevo della ministra inglese che ha detto di privilegiare i lavoratori britannici rispetto a quelli stranieri. Penso che tra il collasso prossimo venturo dei socialisti francesi e il facilmente prevedibile ritorno di una destra neoliberista ancora più impregnata di spinte nazionalistiche in chiave anti-Front National non mi stupirei se leggessimo da qui a qualche mese travail français pour travailleur français. Una parola d’ordine del tutto inefficace sul piano politico e quasi del tutto inapplicabile, ma efficace sul piano della propaganda e capace di fare cassa dal punto di vista elettorale. Producendo però effetti ingovernabili.