La libertà d’espressione dell’avanguardia sembra aver trovato, nel cinema di Marie Losier, una declinazione, ebbra di allucinazioni underground, capace di far dialogare le questioni gender degli ultimi anni con la fisicità di una pellicola, e di un cinema, fuori dal tempo. Francese, da anni residente a New York, Marie Losier governa la sua Bolex 16 mm secondo le leggi dell’immagine. Inebriandosi del «fantastico» francese di Demy e Franju, avvolgendo vite estreme di corpi estremi come nell’indimenticabile The Ballad of Genesis and Lady Jaye, ritratto della storia d’amore fra una figura mitologica dell’underground americano come Genesis P-Orridge e la consorte Jaye, una decostruzione allucinata della singola identità che sognava la fusione totale dei loro corpi. Presente al Torino Film Festival in qualità di giurata nel concorso TFFdoc, la regista francese ha accompagnato anche il suo ultimo lavoro, presentato nella sezione Onde, Aqui em Lisboa, film realizzato con Denis Coté, Dominga Sotomayor e Gabriel Abrantes sulla vita quotidiana della città portoghese. «L’idea iniziale per il mio segmento era quella di coinvolgere un caro amico, il regista Joao Pedro Rodrigues» ci racconta la regista «ma ho capito che forse eravamo troppo amici per poter fare il ritratto della città che avevo in mente. Così, una sera, Joao Pedro mi ha portato in una discoteca di Lisbona a uno show con le drag queen. La star dello spettacolo, Deborah Kristal, mi ha subito conquistata e così è diventata la protagonista del film».

Nel tuo segmento, «L’Oiseau de la nuit», Lisbona è catturata nella magia notturna di una favola quasi antropomorfica. Hai trovato ispirazione anche nei miti e nelle leggende della città? 

Ho letto un po’ di storie e leggende su Lisbona come l’edificazione delle sette colline, la mitologia, elementi insomma che combaciavano con il mio mondo. Quando ho visto Deborah ho pensato subito di creare attorno a lei una favola, girando nel Museo di Storia Naturale, nella casa di un marinaio e ho costruito lentamente la storia, a partire dai costumi, da qualcosa di molto materico insomma, come la mia pellicola.

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Tutti i tuoi lavori sono girati con una Bolex 16 mm e sembra quasi che l’ideazione di un tuo film non possa prescindere da questo mezzo di ripresa… 

Ho bisogno sempre della pellicola. Non ho fatto una scuola di cinema ma una di pittura e per molto tempo. La pellicola per me è come una firma, e, essendo stata abituata per molti anni a lavorare con le tele, è stato quasi un passaggio naturale. Con la mia Bolex non so mai quello che sto girando, sono totalmente dentro all’immagine e questo mi obbliga a essere ancora più attenta.

Quando è avvenuto il passaggio dalla pittura al cinema? I tuoi lavori precedenti, in particolare «The Ballad of Genesis and Lady Jaye», assomigliano, per attenzione e gusto del dettaglio, al ritratto pittorico…

Adoravo dipingere ma era un lavoro troppo solitario per il mio modo di essere poi un giorno un mio ex mi regalò la Bolex che tuttora uso. Anche quando dipingevo mi occupavo di ritratti quindi è stato un passaggio quasi naturale, dopotutto i miei film non hanno una scrittura o un dialogo, per me sono quadri.
I tuoi ritratti-documentari quasi sempre coincidono con un rapporto d’amicizia precedente alla riprese. Come ti poni nel doppio ruolo di amica e filmmaker? 

Per me fare film è come vivere un’altra vita con un’altra pelle e per questo ho bisogno di una relazione molto stretta, di fiducia incondizionata perché sono come una spugna per le loro emozioni. Ora sto concentrando il mio prossimo progetto su Cassandro, un lottatore gay di lucha libre

Come nasce questa attrazione verso uomini-personaggi dalla corporeità così fluida? 

Sono stata prima una bambina, e poi un adolescente, con molti problemi fisici, non sono cresciuta normalmente e forse per questo la «distorsione» del corpo è qualcosa di molto familiare per me. Da ragazza ero pazza dei musical proprio perché liberavano in qualche modo il corpo, erano per me la più grande affermazione di un sogno di libertà dalle gabbie del fisico.