Ho conosciuto Mario Dondero una sera in una libreria di Fermo, credo a ridosso del 2002. Mi ha dato appuntamento il pomeriggio per fotografarmi, quando abbiamo raggiunto in auto prima Lapedona, poi Altidona. Fui ritratto insieme a una famiglia di agricoltori, gente alla quale il nostro mi aveva presentato come «il noto scrittore», guardato da questi tipi forastici con molto sospetto e incredulità, poi ancora sotto un albero di cachi, nel bar del paese con gli avventori più strambi e diversi. Dopo quell’esperienza, che poi vidi nel tempo ripetuta una quantità impressionante di volte con altri, iniziammo a frequentarci.
Fu tra di noi subito amicizia affettuosa, ma anche intima consonanza, per me grandissima fascinazione, e da quel giorno Mario è diventato il mio inconsapevole Maestro: senza una vera intenzione, ha compiuto un deragliamento estetico, soprattutto esistenziale, e lo scrittore minimalista che ero stato fino ad allora, si è presto trasformato in un osservatore militante sedotto dal racconto dal vero.

Mario Dondero ritratto da Elisa Dondero
Tornare sul posto

Anzi, il primo reportage della mia vita lo feci insieme a lui in Friuli. La cosa bella quando stai con Mario è che può accadere di tutto, senti come se la vita accelerasse grazie alla sua fortissima curiosità, all’umanità spinta fino all’inverosimile, e volesse forzare in modo anarchico tutte le convenzioni, soprattutto quelle pratiche della routine quotidiana, dalle ore del giorno e della notte agli spazi che dividono le rotte e i viaggi, le loro prevedibili traiettorie, per entrare con tutti i sensi dentro l’esperienza che sta compiendo, che non è solo fatta di tensione politica e creativa, ma sprigiona la cosa che giustamente a lui interessa di più, cioè vivere febbrilmente ad alta tensione.

Così passammo avventurosamente diversi giorni tra Monfalcone e Redipuglia, con una puntatina anche ad Aquileia, dove all’improvviso, come è solito fare, suonò il campanello di casa Altan; la moglie Mara lo accolse con un calore straordinario, e l’inventore di Cipputi, sapendolo lì, tornò poco dopo da un suo giro in bicicletta. Nei giorni seguenti incontrammo vedove di operai morti di amianto, con commossa partecipazione lui le fotografò mentre raccontavano, entravamo e uscivamo da tinelli rabbuiati di case operaie abitati da ex tubisti, saldatori, verniciatori, malati di mesotelioma.

Contrariamente a molti reporter, Mario ha un approccio etnografico, torna più volte nei luoghi per mettere meglio a fuoco, facendo diventare questa sua esperienza qualcosa di comunitario, saldando i legami sociali. Mentre stavamo passeggiando su quelle terre carsiche, scorie paesaggistiche viventi della prima grande guerra, mi chiese se avevo voglia di scrivere il testo per quel reportage che avrebbe voluto dare al Diario, il settimanale diretto da Enrico Deaglio, dove allora si pubblicavano i migliori reportage letterari dei più bravi scrittori della mia generazione. Accettai con entusiasmo, il pezzo uscì subito dopo e cominciò da quel momento una lunga collaborazione con il settimanale che fu per me di fondamentale importanza.

Mi piaceva partire, essere inviato all’improvviso a raccontare una storia, salire su un treno, arrivare in un luogo sconosciuto a bordo di un’automobile e cominciare quella che consideravo, e continuo a considerare, un’avventura. Alcune le vissi sempre con Mario, e sono state le più appassionanti. Lavorare fianco a fianco con una leggenda del fotogiornalismo era per me motivo di orgoglio, e poi potevo imparare ancora da lui quest’arte che possiamo chiamare «racconto empatico», così straordinariamente umana. Si può fare scrivendo o usando la macchina fotografica, ma è qualcosa che va sempre oltre il risultato estetico, è un lavoro di scavo che si fa con i sensi, partecipando alla vita degli altri, e in questo il Dondero è un vero campione, quindi non mi stupisce che ultimamente abbia affermato di voler essere ricordato «per aver amato gli uomini». Quelli che ha sempre raccontato sono stati soprattutto intellettuali raffinatissimi e civili, uomini comuni, gente che ha lottato per la giustizia e per cambiare il mondo, a volte perdendo la vita come l’eroe greco Alekos Panagulis.
Il suo bianco e nero, diversissimo da quello dei fotografi leziosi, dove l’aspetto formale tende a prevalere, pare nascere da un conio con una velatura di classico, con un nero più gravido, più materico, inequivocabilmente realista, e ha quella luce particolare dove il soggetto prevale sulla tecnica usata per riprodurne la sua immagine.

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I miti letterari

Ciò che mi ha sempre colpito, e credo sia proprio la fattura che si riconosce a certi classici, è l’immutabilità nel tempo dello stile, l’assoluta refrattarietà alle mode, ai momenti, alle stagioni, l’assoluta assenza di ogni manierismo. Diciamo che anche questo è un aspetto che trasferito in ambito letterario può apparentarci idealmente. Neanche io amo il mestiere, la carriera, e considero lo scrivere un modo di stare al mondo, come direbbe Mario della fotografia «un collante delle relazioni umane».

Sempre per Diario andammo ad Alba nei luoghi di Fenoglio, uno dei miei miti letterari. Anche quello fu un reportage memorabile, mi emozionò molto visitare i luoghi dello scrittore, come lo sferisterio Mermet, dove Beppe andava a ballare e dove conobbe Luciana Bombardi, la sua futura moglie, o la ditta Marengo, dove lavorava. L’insegna c’era ancora, «vermouth e spumanti» vidi inciso nel marmo scrostato, e suonando al portone dell’ingresso mi rispose la voce mite di un giovane volontario. Adesso c’era una specie di centro diurno per persone disagiate, mi disse.

Indimenticabile fu anche il lavoro che portò al libro di Einaudi Il costo della vita, sviluppo di un precedente reportage che facemmo in occasione del ventennale della tragedia sul lavoro di Ravenna, con le sue foto scattate a caldo e al presente in quel tragico 13 marzo 1987.

L’occhio empatico

Un giorno eravamo insieme a Milano per incontrare Giovanni Pesce, l’eroe della resistenza italiana nella sua casa di Piazza Bonomelli. Era una giornata molto afosa in una Milano semideserta. Mario era arrivato con una bottiglia di prosecco e una vaschetta di gelato, le macchine fotografiche in spalla, e proprio il giorno dopo sarebbe partito per la Russia.

Ci aveva accolto «la compagna Sandra», ovvero sua moglie Onorina, in questo appartamento buio dove avevamo conversato per un paio d’ore. Volevo da Pesce una testimonianza su Giuseppe Di Vittorio, Nicoletti, per il libro che stavo facendo con Mario, Di Vittorio a memoria, commissionato dalla Cgil, che incontrò prima a Guadalajara e poi a Ventotene. Mi aspettavo un racconto vivido, pieno di aneddoti, come piacciono a me. Quelle piccole storie che messe tutte insieme fanno la Storia. Invece lo trovai stanco, quasi senza più voglia di raccontare. Si limitava a rispondere l’essenziale, poche frasi significative ma brevi.

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Mario, dopo averli riempiti di attenzione e di affetto, mostrando loro le sue foto scattate proprio in Spagna, una delle sue ripetute ossessioni, chiese se poteva fotografarli. Eravamo in un tinello buio, la poca luce arrivava dalla portafinestra che dava sul balcone, faceva molto caldo, e loro due si misero uno accanto all’altra in attesa che Mario scattasse, come una coppia di anziani qualunque nel tinello di un appartamento.

Pensavo venisse fuori una foto troppo scura, e temevo per il nostro libro che avrebbe perso una voce importante. Invece, quando dopo qualche mese Mario mi mostrò uno scampolo di immagini, come lo chiama lui, m’impressionò moltissimo quel ritratto, e anche oggi continua a colpirmi. Lui aveva visto in macchina quello che io non ero riuscito a vedere, e che tutto quel tempo empatico era riuscito a creare, cioè la bellezza nuda di due persone giuste della storia, illuminate da una luce che le rendeva umanissime. È questo il fuoco misterioso che Mario ha tenuto vivo e continua a tenere vivo per «raccontare la vita con sincerità e lealtà» e, come direbbe Ryszard Kapuscinski, «con amore per la gente».