Il fuoco della storia sotto la cenere della nostra identità. A furia di memorizzare luoghi comuni e cliché, l’Italia degli ultimi due secoli si appiattisce nella linearità che banalizza tutto a beneficio della retorica d’attualità o della celebrazione propagandistica.

Un ottimo antidoto si dimostra Ritorni di fiamma. Storie italiane (Feltrinelli, pp. 528, euro 28) con cui Mario Isnenghi dipana la dialettica fra Stato e Nazione, miti e fatti, poteri e piazze, liturgia ed eresia. Già professore di Storia del giornalismo a Padova e direttore del Dipartimento di studi storici a Ca’ Foscari, continua a imbastire le memorie alternative come presidente dello Istituto veneziano per la storia della Resistenza e della società contemporanea
«Lo spunto più significativo è che dentro lo spaccato sociale stanno stratificazioni orizzontali e verticali, contemporaneamente: l’Italia come somma di vite personali che si muovono all’interno della vita collettiva, donne e uomini che, in una qualche forma e con velocità anche profondamente diverse, mettono in moto un soggetto collettivo. Nella storia del Novecento a molte persone è capitato di nascere liberale, vivere fascista e risvegliarsi antifascista o post-fascista» sintetizza Isnenghi che non si lascia incantare dagli schemi rassicuranti, nemmeno quando si misura con gli «anni di piombo».

Perché l’immagine dei ritorni di fiamma?

È come una sorta di «ripasso generale» dei 150 anni di storia dell’Italia unita e insieme dei miei libri precedenti, ripensati a distanza. Una fiamma brucia se sa promuovere nuovi incendi. E l’Italia nasce proprio come un ritorno di fiamma: il Risorgimento è fondato sull’idea dell’identità del passato che può ardere di nuovo. Così pure essere «ex» si rivela elemento costitutivo della nostra storia. Fra Ottocento e Novecento, questo «ex» fiammeggia una o più volte. Il punto diventa come ogni «io» e il «noi» rielaborano le dinamiche trasformative.

Fin dai primissimi moti risorgimentali con il Carro di Tespi – i teatri nomadi (n.d.r.) – che diventa addirittura cruciale? Cosa fa del teatro la miccia della rivolta?

Ho dedicato 200 pagine del libro per liberare la parola dal «negativo» e svilupparne invece l’arte comunicativa. Melodramma, opera, lirica appartengono al Dna italiano, ma fin dal 1848 c’è il «teatro di strada» con chi agisce sulla scena pubblica come in piazza San Marco a Venezia o nella rivolta degli studenti l’8 febbraio a Padova. Le compagnie giravano all’epoca i sette Stati dell’Italia dotati di altrettante forme di censura e gli attori erano la dimostrazione vivente che si poteva cambiare: recitare la parte del cittadino e non più del suddito. Certo, c’è il grande coro dell’opera non solo verdiana che dà voce sul palcoscenico al personaggio collettivo che incarna gli ideali risorgimentali, nonostante siano rappresentati altrove e in altri contesti. Ma c’è Gustavo Modena grande interprete e insieme mazziniano convinto. E tanti altri attori, attrici, cantanti erano coinvolti nella trasformazione della scena pubblica: incoraggiavano, sul palcoscenico e fuori, ad essere «attori» della rivoluzione risorgimentale.

Tuttavia, la doppiezza e il gattopardismo sono sempre la più marcata caratteristica di un Paese legato al Vaticano?

L’Italia nasce senza e contro la Chiesa cattolica. Eppure di questa «doppia cittadinanza» nessuna delle due è mai pura e completa. Alla fine della sollevazione contro il Papa-Re, si registra il paradosso del primo sovrano d’Italia che si chiama… secondo. Per di più, Vittorio Emanuele è re d’Italia legittimato dalla doppia formula: grazia e volontà, religione e nazione. Già negli anni Ottanta si deve ricorrere alla celebrazione della laicità risorgimentale con le statue dei «frati» Paolo Sarpi e Giordano Bruno. Infine, non va dimenticato che dopo Raffaele Cadorna sulla breccia di Porta Pia arriva il figlio Luigi, generale capo di stato maggiore nella prima guerra mondiale. Istituirà i cappellani militari, alla fine più di 2.000, sia pure affiancati da un drappello di pastori protestanti e rabbini.

Altre icone da ristudiare?

Mazzini morì a Pisa nel 1872 con i documenti intestati a mister Brown, perché comunque presenza imbarazzante nella «sua» Italia. Anche Garibaldi fu condannato a morte dai Savoia e nel 1862 sull’Aspromonte gli sparano. E sarà a fianco della Comune di Parigi, anche se aveva difeso la Repubblica Romana dall’esercito francese. Come ho argomentato altrove, l’eroe dei due mondi è un vincitore-vinto e insieme un vinto-vincitore: defraudato politicamente e riscattato come simbolo. In Italia, si tratta di una «fiammata» che ritornerà nel Novecento: con la Grande Guerra, la «vittoria mutilata»; con il fascismo di regime che tradisce la rivoluzione; con la Repubblica nata dalla Resistenza ma governata dalla Dc.

Il Veneto è in prima linea nelle celebrazioni della Grande Guerra. E nella rivendicazione dell’eredità serenissima…

Annoto, in questo periodo prelettorale, un continuo rilancio dell’identità veneta francamente anche dalle angolature più inattese. Sempre più di frequente fa parte del presente strumentalizzare il passato: si vedono di continuo agitate le bandiere di San Marco. Mi pare però che questi poveri leghisti suppongano che la Serenissima sia stata quel che si raccontano tra loro. In realtà, il rapporto fra Venezia e la terraferma fu tutt’altro che idilliaco. Forse, ci pigliano di più i venetisti che rispolverano l’idea di impero, e non di nazione, della Serenissima. È davvero questo il sogno che si vorrebbe di nuovo?

Da storico, come valuta la tendenza a declinare in fiction i capitoli più recenti come accade adesso con Tangentopoli in versione tv?

Dal mio punto di vista, al massimo ho sospinto la scrittura fino agli anni ’70-’80 perché il lavoro dello storico necessita di archivi consolidati. Spesso però la letteratura arriva prima della storiografia ad intuire i fenomeni. Se lo storico ha bisogno che si liberi l’accesso ai documenti, lo scrittore è autorizzato a procedere appunto con la sua personale intuizione. Comisso era un mezzo analfabeta commisurato ad altri intellettuali delle riviste, ma grazie alla sua sensibilità capì subito il significato di Caporetto come «vacanza». Dunque, nulla in contrario al mettere in romanzo la vita collettiva. Tanto più quando certi spaccati economico-sociali ben si prestano, come nel caso dell’Italia del 1992.