Ci sono libri che aspettavano di essere scritti: quello di Franco Milanesi, Nel Novecento (Mimesis, pp. 297, euro 22), è indubbiamente uno di questi. Il sottotitolo ne spiega il motivo: Storia, teoria, politica nel pensiero di Mario Tronti. Si tratta dunque di una biografia politico-intellettuale di quello che può essere considerato una stella polare nella costellazione dell’operaismo italiano. Affermare questo, tuttavia, già pone delle questioni che il libro di Milanesi affronta con grande rigore: quanto il percorso di Tronti può essere pienamente colto dentro la traiettoria dell’operaismo politico, ovvero quali sono le linee di coerenza rispetto a quella straordinaria rivoluzione copernicana che si dispiega tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, tra «Quaderni rossi»e «Classe operaia»? Per rispondere a tali interrogativi, l’autore ripercorre il percorso di Tronti a partire dalla formazione, segnata dalla straordinaria importanza della figura di Galvano Della Volpe, fino agli scritti ed esiti politici recenti. I sette densi capitoli del libro («Gli scritti su Gramsci e il comunismo italiano», «Gli anni ’60 e l’operaismo», «Pensiero politico e riflessione sulla storia», «L’autonomia del politico», «Movimento operaio e riscossa borghese tra anni ’70 e ’80», «Passaggio di secolo») scandiscono con precisione non solo le tappe cronologiche di un percorso, ma le linee di continuità e discontinuità che lo innervano. Non si tratta solo di storia, ma di un pensiero politico che ha provato a piegare e perfino opporsi alla storia. Ad afferrare il fulmine a mani nude, per usare l’Hölderlin amato da Tronti. Questo pensiero, sottolinea infatti Milanesi, «è un dispositivo politico che rigetta (…) l’autonomia del teorico e la tendenza alla teoria generale». Lo conferma Operai e capitale: «un discorso che cresce su se stesso corre il pericolo mortale di verificarsi sempre e soltanto con i passaggi successivi della propria logica formale».

Quale autonomia?

Fin dagli anni Cinquanta Tronti fa i conti con Gramsci, ancora imbrigliato in quella tradizione marxista italiana idealista con cui romperà Della Volpe. A partire da questa rottura – perché sempre, scrive Milanesi, «la politica operaia è una frattura» – è possibile ritornare a Marx per condurlo davanti ai cancelli di Mirafiori e scagliarlo contro il capitalismo taylorista-fordista. Marx contro il marxismo, Lenin contro il leninismo: è un programma di ricerca e un metodo politico, l’operaismo nasce qui. Per scoprire che la classe non è un semplice dato economico ma innanzitutto un concetto politico, cioè che non c’è classe senza lotta di classe.
Con il ’68-’69 si chiude per Tronti il «grande Novecento», con quello definirà un abbaglio: aver confuso il rosso del tramonto con quello dell’aurora. Da lì in avanti si apre la necessità di ripensare la «politica dei vinti» contro la «storia dei vincitori». Rispetto a questo passaggio chiave, la tesi sostenuta da Milanesi è chiara: «il percorso che conduce Tronti all’autonomia del politico non origina da una cesura rispetto all’operaismo ma si sviluppa dal suo stesso impianto». Per l’autore, dunque, l’autonomia del politico – che fu anche un’importante filone di ricerca teorica – è la risposta al problema dell’organizzazione, che rimane il vero buco nero di tutta la costellazione operaista. La tesi di Milanesi di una coerenza di fondo nei passaggi di Tronti presenta buone argomentazioni. Il punto resta però la valutazione politica: si ha l’impressione, con lo scorrere delle pagine, che venga riproposta una dialettica classica tra spontaneità e organizzazione, proprio quella che Lenin aveva messo costantemente in tensione e all’occorrenza rovesciato nell’immaginare il mutevole rapporto tra soviet e partito. La spontaneità è invece qui sinonimo di movimento, l’organizzazione è ipostatizzata nel partito. Alla sequenza organizzazione-partito-Stato si contrappone così la sequenza spontaneità-movimento-antipolitica. E l’autonomia del politico è l’autonomia dello Stato rispetto al rapporto sociale capitalistico.
Di fondo, sembra che il nodo irrisolto sia quello della composizione di classe. Schiacciarlo a mera riproposizione del tradizionale spontaneismo consiliarista, oppure liquidarlo come arnese vecchio e irriproponibile, significa privarsi di ciò che è forse l’architrave dell’intero metodo operaista. Non è un caso che oggi – a fronte delle difficoltà delle lotte nella crisi – quell’autonomia del politico passi dallo Stato all’Unione Europea, riproponendo con mezzi diversi la stessa scorciatoia. E se lo Stato era luogo di riproduzione di un ceto partitico che stava smarrendo la propria funzione politica, le istituzioni europee diventano illusorio rifugio di un ceto intellettuale che ha smarrito la propria funzione sociale.
Le spalle voltate al futuro da Tronti negli anni Ottanta e Novanta consegnano una verità difficilmente discutibile: il pensiero del post ha finito per decostruire la realtà di classe ben più di quella del capitale. Chi si è fatto incantare dalla vulgata di un’eterogeneità irricomponibile non ha tanto abbandonato un’inutile continuità, quanto un indispensabile punto di vista di parte. Così, adeguandosi allo spirito del tempo, l’operaismo è stato depoliticizzato nell’«Italian theory», non più attrezzo per dividere ma trampolino per carriere accademiche.

Riafferrare il fulmine

Ora, alla luce dei vicoli ciechi e dei punti di blocco che accomunano percorsi tra loro differenti o addirittura contrastanti, c’è una domanda che va affrontata: cosa resta di quella costellazione operaista? Una risposta azzardata è: un metodo della rottura, uno stile militante, un punto di vista irriducibilmente di parte. Da qui probabilmente occorre ripartire per saltare in avanti, non per ripeterne gli esiti né per cantilenarne le categorie, ma per ripensare radicalmente le fondamenta del presente. E al presente occorre non voltare affatto le spalle, per guardare negli occhi il nemico: «non si può ogni giorno emettere sentenze di condanna della realtà visto che non si è adeguata a uno schema mentale». Per poter affermare di fronte a esso: «meglio la crisi che lo sviluppo, meglio il conflitto che l’accordo, meglio la divisione aspra del mondo che la sua irenica unità».