Poeta Laureato nel 1990, Premio Pulitzer nel 1999, con una lunga e impeccabile carriera alle spalle, Mark Strand è una di quelle voci liriche forti cresciuta lentamente nel riconoscimento pubblico. La sua tarda emersione in prima fila nel corale americano si è ripetuta anche in Italia dove, solo negli ultimi anni, e grazie all’infaticabile ed esperta opera di traduzione di Damiano Abeni, il corpo maggiore della sua poesia L’uomo che cammina un passo avanti al buio, Mondadori), con il bel saggio dedicato all’arte di Edward Hopper (Donzelli), sono giunti nelle nostre librerie.

Non è casuale il ritardo italiano. Nonostante il suo nitore linguistico, Strand non è poeta di facile accesso. Amaro e ironico cantore della ‘non-condizione’ dell’essere nel mondo, egli si maschera da poeta insonne e notturno, armato contro l’ineffabile di un sardonico umorismo pseudo-salvifico. Solo in apparenza chiuso in una torre di vetro, Strand guarda lontano e medita sulla realtà (come faceva in termini meno surreali Wallace Stevens), elaborando ipotesi sull’universo esistenziale, solitamente da lui codificate in incantesimi onirici, vignette comiche, e placidi (e tanto più sconcertanti) incontri con il nulla, l’assenza, la morte. «O mia compagna, mia stupenda morte, / mio paradiso nero, mia droga antiquata, / mia musa simbolista, dammi il tuo seno / o la mano o la lingua che dorme tutto il giorno / dentro quella muraglia di gengive rossastre»: così scriveva in una poesia di qualche anno fa, facendosi gioco del decadente e snervato simbolismo fin de siècle.

Questo sguardo irridente ha nutrito la vena più autografa di Strand negli ultimi due decenni. Ed è in tale sprezzatura (metafisica più che disincantata) della durezza dell’esistere che sembra di poter notare un’agonale convivenza sia con l’imperscrutabilità del reale sia con la vita stessa, o con la non-vita di un qualche spazio oltre cortina: uno sberleffo pacatamente faustiano su un terreno di rappresentazione demotico, alimentato dal commercio con il limite estremo, ai confini di ogni immaginabile paesaggio. Strand si diverte a esplorare l’esperienza del vivere in modalità liriche deadpan, che si appoggiano a chiuse in punch-line – freddamente, o con freddura: un’arma di autodifesa affilata – senza manifestare traumi apparenti e con un personalissimo gusto per il «black humor», che si fa sferzata vincente.

Rispetto alle ultime raccolte (dialogate per lo più con il personaggio «Morte»), la ricerca poetico-esistenziale di Strand continua in tale direzione ma in termini sempre più brillanti nell’impiego virtuosistico di un wit, un’arguzia, agghiacciante. Di fronte alla commedia dell’assurdo che è l’esistere nel mondo, e nel mondo di oggi, il poeta, che coraggiosamente discende nei sottosuoli dell’anima e del reale, non è affatto rassegnato a farsi fermare da un silenzio beckettiano. L’intento è quello di interrogare entità inconoscibili, aprire porte proibite, come fecero altri in altri tempi e con altre allegorie, e altri intenti, incluso quello di ritornare a rivedere la luce. L’accostamento non è azzardato: le bufere infernali flagellano anche i suoi ‘dannati’.
Le stelle hanno una loro nebulosa funzione in Quasi invisibile (traduzione di Damiano Abeni, «Lo Specchio», pp. 103, euro 16,00), l’ultimo volume di Strand, che esce adesso presso Mondadori proprio in occasione dei suoi ottant’anni. Un titolo intrigante e ben bilanciato nel confermare la solida esistenza del poeta e la sua altrettanto solida rinuncia alla rinuncia sia della parola sia della sua allampanata, biondo-bianca silhouette (almeno in controluce lunare). Quel «quasi», infatti, nel suo stabilirsi come antifrastico, è importante tanto quanto l’«invisibile». Il poeta è ombra quasi invisibile, non completamente invisibile, o per lo meno non ancora. Ci sarà tempo per constatare l’ultima visibilità, se – è questo forse il punto – la poesia tiene, resiste.

Come in un album pittorico e pittoresco, il volume raccoglie quarantasette prose-pieces, contro-favole in una prosa lirica già sperimentata nello straordinario e compatto The Monument (1978). Qui si mira invece alla scansione in galleria di una successione di tableaux vivant, riquadri (anche tipografici) animati da una consorteria di personaggi, per lo più appartenenti a un’estenuata classe borghese (un banchiere, un ministro della cultura, un giornalista, un io qualunque), personaggi apparentemente normali e tuttavia ritratti alle prese con situazioni bizzarre in nudi interni (una camera da letto, un bordello, un castello, un boudoir matrimoniale) o, più spesso, in paesaggi esterni inospitali, algidi specchi alla Magritte, iperrealistici e al contempo insondabili e misteriosi. In questi cronotopoi del nulla il soggetto osserva il proprio azzeramento nel mondo, oppure, nell’evitarlo, si lascia trascinare da un incontrollabile impulso verso un viaggio non si sa mai da quale e in quale direzione, un viaggio nell’ignoto che non sembra prevedere arrivi.
Ce sia prigioniera di un claustrofobico interno o di un altrettanto claustrofobico esterno, l’anima proiettata da Strand in questi riquadri è tranquillamente irrequieta, spossessata da una «ermetica malinconia», e sempre in colloquio non più tanto con il personaggio Morte, quanto con quel suo parente stretto «che è il tutto che è il nulla». Titoli ossimorici annunciano anaforicamente la spezzatura logica fra l’essere e il mondo: Trasparenze dell’inesistente, L’enigma dell’infinitesimale, Eternità provvisoria, Nessuno conosce ciò che si conosce: sfide al paradosso, ragionate parabole dell’assurdo.

Qualche ironico spiraglio si intravvede nell’apparizione, quasi sempre nebulosa, delle stelle. Per esempio ne Gli studiosi dell’ineffabile un uomo se ne sta tranquillo a godersi il tramonto sulla veranda di casa. D’improvviso un segreto richiamo lo spinge su una collina, e da lì gli capita di osservare sorpreso «lunghe file di persone che si trascinavano in lontananza. Il loro respiro pesante e la tosse erano causati con ogni probabilità dalla nuvola di polvere sollevata dalla loro stessa marcia. ‘Chi siete, e qual è il motivo di tutto ciò?’ chiesi a uno di loro. ‘Siamo credenti e dobbiamo continuare il cammino’, e poi aggiunse: ‘La nostra opera è importante e ha a che vedere con il sé’. ‘Ma tutta la polvere che alzate offusca le stelle’ obiettai. ‘Macché, macché,’ rispose, ‘siamo solo di passaggio, le stelle torneranno’».

Questi studiosi del sé ineffabile sono degli illusi e nel loro viaggio perpetuo continuano a oscurare le stelle. Strand, invece, no, decide infine di fermarsi, chiudendo così il volume con un’ultima agghiacciante stilettata: «Volevo partire per un immenso viaggio, viaggiando giorno e notte entro l’ignoto finché, dimenticando il mio antico sé, non fossi entrato in possesso di un sé nuovo, uno che magari mi era sfuggito in uno dei miei viaggi precedenti. Ma fare il primo passo era al di là delle mie forze. Me ne stavo sdraiato a letto, incapace di muovermi, meditando, come si fa alla mia età, sulla natura della malinconia – su come s’insinua nello spirito, come disincarna la volontà, su come confina i sensi nel gelo del crepuscolo, su come persino le migliori e le peggiori intenzioni avvizziscono nella sua morsa. Io continuavo a fissare il soffitto, poi d’improvviso sentii un getto d’aria fredda, e scomparvi». Il sipario si chiude. Eppure, ci vorrà un po’ di tempo perché l’evento si realizzi: Quando ho compiuto cent’anni è il titolo di quest’ultimo frammento. Al momento il poeta ottantenne continua a viaggiare. Egli è ancora solo quasi invisibile.