«La vita non è forse una serie di immagini che cambiano mentre si ripetono?», chiedeva, anzi affermava, Andy Warhol nel 1982. La citazione si adatta perfettamente all’opera di Marlene Dumas, cui la Tate Modern di Londra dedica ora una sorprendente personale: Marlene Dumas The Image as Burden, fino al 10 maggio (catalogo a cura di Leontine Coelew, pp. 196, con 200 illustrazioni a colori, £ 19.99).

Bianca di Città del Capo, dove è nata nel 1953, ma cresciuta artisticamente a Amsterdam a partire dal 1976, Dumas ha sempre lavorato sul processo di trasformazione da un’immagine come fonte a un’immagine come risultato, proponendosi come testimone, o terzo incomodo, di un matrimonio mal riuscito, quello tra l’arte e la vita, in cui il punto d’arrivo, l’arte, tende per lo più a sopraffare il punto di partenza: «I am the third person / observing the bad marriage / between art and life / watching the pose and the slip / seeing the end in the beginning» , scriveva in una poesia del 1998, Couples. Rivendicando l’assunto antiromantico che l’arte non può riprodurre la vita, non le restava che accettare l’inevitabile epigonalismo di chi è consapevole della mediazione: partire da una fotografia per trasporla su tela, con l’obiettivo di esplorare «l’effetto della pittura sull’immagine anziché dell’immagine sulla pittura». In questo passaggio à rebours dalla tecnologia all’arte, comune a tanti artisti contemporanei, dal pioneristico Sickert fino a Richter e Hockney, si riconosce quel post-umano di recente teorizzato da Rosi Braidotti, in cui l’umano sopravvive, ma solo con tutte le sue protesi e integrazioni dovute all’evoluzione macchinistica: sono strati diversi di realtà, quindi, quelli che Dumas ci propone, soggetti a metamorfosi, distorsione e abuso, perché anche fisicamente portano le tracce di una storia in cui l’intervento (esterno) ha prevalso sullo sviluppo (naturale, semmai esistesse).

La mostra si apre perciò, iconicamente, con i Rejects, opera ancora in fieri che allo stato comprende quarantotto ritratti di volti, per lo più femminili (ma non solo: c’è anche un cane lupo), che mirano a costruire l’antiserie rispetto ai suoi stessi Models, dove Dumas aveva proposto cento volti di donne archetipiche o ideali, soprattutto dal mondo delle celebrities, ma senza escludere sue amiche e soprattutto Il ritratto di donna folle di Hugh Diamond, la fotografia (oggi al Musée d’Orsay) che negli anni cinquanta dell’Ottocento diede inizio alla morfopsicologia, il primo tentativo sistematico di utilizzare la fisiognomica a fini diagnostici. Qui invece Dumas punta a demolire la fissità iconica che il culto dei divi ha assunto nei media, dimostrando tanto la deformabilità dei volti quanto l’apertura della serie, work in progress potenzialmente infinito su entrambi i fronti. Il risultato è una sovrapposizione allucinata tra l’estetico, con la sua dimensione metamorfica, e il personale, con la sua paura della morte: la progressiva dissoluzione dell’immagine, sospesa tra un’ambizione verso la forma perfetta che aspira a restare per sempre e un’irrazionale tentazione a sparire nell’assenza di forma, punta così a un’utopistica «irresponsabile libertà di cambiare continuamente idea».

Fissità e infinito sono i poli di una dialettica senza sintesi che sfrutta costantemente le opposizioni (amore e morte, contenuto e forma, immagine e esperienza) per metterle in crisi dall’interno: come avrebbe potuto un’artista nata in Sudafrica diventare olandese, se non facendo dell’Olanda un modo di dare forma alla sua origine sudafricana? Eppure l’incontro ritorna scissione e la scissione suscita imperfezione: i contorni sbavano, l’olio si addensa, la luce sfuoca, il colore uniforma. Non sa dipingere, si sarebbe detto al tempo in cui Das Unheimlich non aveva cittadinanza nell’arte. I suoi ritratti (Dumas è pittrice soprattutto di ritratti) sono primi piani folgoranti, con occhi senza orbite (The White Disease) o infossati nelle orbite (The Jewish Girl), volti neri con macchie di blu (Moshekwa) e bianchi col naso e mezza fronte rossi (Martha – Sigmund’s wife): «paesaggi», dice lei, che portano su di sé le tracce del fuori, il mondo da cui vengono (il Sudafrica di Moshekwa), e le perturbazioni di dentro, l’inconscio che emerge (come nel ritratto di Martha, che è naturalmente la moglie di Freud). «Display erotici di confusione mentale (con intrusione di informazioni irrilevanti)», li chiama Dumas, rimarcando come i suoi ritratti non possano non portare in sé il doppio, perché sono tutti tratti da scatti fotografici. Il suo stesso autoritratto, straniante, in cui una corona di capelli biondi incornicia un volto quasi senza tratti su cui si stagliano due occhi che guizzano di lato, mentre le labbra rimandano al riverbero dei capelli sulla fronte (sbavatura o riflesso?), s’intitola La banalità del male, con un omaggio a Hannah Arendt che è anche rivendicazione, ancora una volta, di ambiguità, compresenze, distorsioni e displacement.

Dumas di cognome, ma senza sapere il francese e assolutamente ignara di chi il cognome aveva portato ben prima di lei, cresciuta nel mito dell’arte francese e americana, ma finita in Olanda nella convinzione che fosse la terra di Mondrian, l’artista vuole essere ella stessa, nella sua persona fisica e nel suo vissuto esperienziale, il testimone di un esilio dal mondo, un’impossibilità d’integrazione, che la rende capace, secondo uno splendido aforisma di Said («l’anima acerba concentra il suo amore su un posto nel mondo; l’uomo forte ha esteso il suo amore a ogni posto nel mondo; l’uomo perfetto l’ha saputo estinguere»), di osservare tutto con senso critico, rinunciando alle pretese populiste di amore universale e valorizzando la coscienza della contraddizione.

Sentendo le sue opere di fronte alla critica come una ragazza cui venga chiesto di togliersi le mutande perché l’interprete possa guardare cosa c’è sotto, ha ribadito che il significato non è ciò che sta sotto e perciò non c’è niente da togliere: di qui la perturbante serie di tele dedicate ai corpi femminili, culminata col quadro che dà il titolo alla mostra, The Image as Burden (L’immagine come fardello), del 1993, che riproduce a olio un’inquadratura di Camille, il film del 1936 di George Cukor con Greta Garbo, tratto dal romanzo di Alexandre Dumas, dove il corpo della donna tenuta in braccio dall’amante è quello delle vittime di ogni violenza, ma anche di Gesù in una moderna pietà. Il significato non interpreta, ma è contenuto, come nello splendido dittico ideale Losing (her Meaning), con un corpo di donna (probabilmente affogata) che affiora conturbante di schiena dall’acqua, e Waiting (for Meaning), con un corpo di donna distesa in offerta su un tavolo coperto da un lenzuolo bianco (probabilmente all’obitorio), entrambi del 1988. E nella splendida serie dedicata a Maddalena del 1995 (tele di grandi dimensioni raffiguranti, fra le altre, Naomi Campbell, Venere, Venezia gloriosa e una modella invecchiata, cui si sono aggiunte poi Lady Diana e Amy Winehouse) si proponeva di unire la megamodel e la baby whore, la donna caduta e la seduttrice, la babydoll e l’amazzone, per creare una figura mista, «risultato di una razza veramente bastarda».

È il corpo, infine, il monolite sacrale della civiltà delle celebs, a costituire l’oggetto della contaminazione e corruzione massime, fino a mettere in questione se stessa, nella tela intitolata alla Morte dell’artista, dove la morte reale di Louis-Ferdinand Céline fa il paio con la famosa frase di Roland Barthes che liquidava il mito dell’autore a favore della destinazione d’uso dell’opera d’arte. Immagini ai confini col porno, un crocifisso presentato come Solo, la faccia di Osama bin-Laden oppure Pauline Lumumba che passeggia a seno nudo per le strade di Kinshasa in occasione del funerale del marito sono tutte opportunità per rimettere in discussione, politicamente, i significati consolidati e dati per scontati: aprire un nuovo spazio (mentale) per l’immaginazione. Tocca alla donna realizzare questa trasformazione, perché un tempo lei era la modella, mentre il pittore era un uomo, ma ora lei è l’artista e all’uomo non resta che fare lo spettatore.