Eclettico, Martial Raysse lo è sempre stato: tra la fine degli anni’50 e la fine dei ’60, prima astrattista, informale, tachiste, poi firmatario del manifesto del Nouveau Realisme, scultore, pittore, assemblatore di oggetti e di materiali, ma anche scenografo, infine cineasta e sperimentatore video, creatore di un immaginario molto colorato e pop, con prelievi e citazioni dalla storia dell’arte (l’odalisca di Ingres ricorre spesso nei suoi quadri), dalle riviste di moda e di cinema (le pin-up, la Bardot…). L’estetica di Raysse (sulla soglia degli 80 anni) è davvero l’apologia della tecnica mista, laddove il neon si sovrappone alla tela, l’oggetto si fonde con la pennellata, la figura deborda dalla cornice, il quadro si fa scultura, fino ad essere inglobato in uno spazio installativo: il Raysse Beach è un microcosmo pittorico di dimensioni variabili, concepito nel 1962 e replicato in contesti diversi fino ad oggi. Un ambiente balneare che ha originato in parte cortometraggi come Jésus-Cola ou L’Hygiène de la vision (1966), galleria di personaggi usciti fuori da una pubblicità televisiva o da una rivista patinata («critica paranoica della società dei consumi», come la definì l’autore stesso), nonché Homero presto (1968), rilettura dell’Odissea girato in formato scope (come i coevi film di Godard) conservando una deformazione dell’immagine, con Penelope immersa dentro una grande tazza da caffellatte circondata da proci in bicicletta, poco minacciosi e piuttosto spensierati.

Ma che il cinema di Raysse sia un’estensione diretta delle sue opere plastico-pittoriche, si evince già da un’opera del 1964: Suzanna, dove il quadro di Tintoretto raffigurante il tema biblico della fanciulla insidiata dai vecchioni, presenta una parte bianca su cui proiettare un super8 interpretato dall’amico e collega Arman (conosciuto a Nizza dieci anni prima insieme a Ben Vautier) nei panni di un vecchietto: «Gli avevo appiccicato al mento una barba finta che gli conferiva un aspetto lubrico», racconta Raysse, «e lui si avvicinava a Susanna a piccoli passi, facendosi strada fra le canne di bambù. Avevamo girato la scena nel suo giardino. Era divertente, perché tutt’a un tratto, il quadro si animava». L’anno successivo l’artista realizza un’altra tela che ingloba una cineproiezione: A propos de New York en Peinturama (il titolo fonde i termini “pittura” e “cinerama”), composto (a sinistra) dalle sagome di due uomini (stesso e Jean Tinguely) che indicano (a destra) una ragazza proiettata in un riquadro (filmata dal televisore al Chelsea di New York).

L’anno successivo Raysse esordisce con il citato Jésus-Cola cui segue Portrait Electro (1967), girato nel dipartimento di ricerche dell’ORTF (la televisione francese): è uno dei pionieristici esperimenti di interfaccia tra cinema ed elettronica, ricorrendo ad effetti speciali di vario tipo, tra cui la solarizzazione, espediente che consente a Raysse di utilizzare l’immagine video come fosse un pennello, ottenendo risultati fortemente pittorici, con eccessi cromatici che ritroveremo anche in Camenbert Martial Extra Doux (1969), forse tra i suoi cortometraggi più belli; qui, alcuni personaggi seduti intorno a un tavolo, guardano la televisione e assaggiano un camembert allucinogeno, ben presto il tinello si trasforma in uno studio televisivo e tutto scade in un’orgia elettronica, grazie a zoomate, intarsi, inversioni cromatiche.

Ciò che colpisce di più nei film dell’artista è naturalmente l’uso spregiudicato del colore: violento, pervasivo, plasmabile all’infinito. La manipolazione dell’immagine fino all’eccesso, alla saturazione, alla metamorfosi da positivo a negativo, è una delle costanti del cinema di Raysse: il suo unico lungometraggio, Le Grand Départ (1972), è quasi interamente trasformato in negativo colore. Dopo il prologo iniziale, con una famiglia riunita intorno al desco (ecco nuovamente la situazione di Camenbert…), dalla visione di una bambina (come Alice di Carroll) ci ritroviamo catapultati in un fiabesco on the road lisergico, accompagnati da un uomo con la maschera di gatto (interpretato da Gilles Raysse, fratello dell’artista), incontreremo Monsieur Nature (il divo hollywoodiano Sterling Hayden) e altri personaggi, tra cui Anne Wiazemsky (già compagna e musa di Godard) che popolano una sorta di comunità hippy. Le Grand Départ potrebbe essere visto come un’opera semi-narrativa, ma in realtà è difficile cercare nei film di Raysse una linearità diegetica, più facile lasciarsi trasportare dal flusso visuale e da quel misto di performance e tableaux vivants: anche Le Grand Départ è ricco di riferimenti iconografici, pensiamo alle citazioni da L’angelus di Millet e a Le radeau de la Meduse di Gericault, fino all’esplosione finale – probabilmente la parte più interessante di tutto il film – nella quale l’artista francese si lascia andare a una caotica texture psichedelica in bianco e nero con dissolvenze incrociate e sovrapposizioni. Il travestimento – anche mediante uso di maschere – è un’altra costante dell’immaginario filmico di Raysse, Le Grand Départ incluso: del resto l’artista ha creato in passato i costumi e le scenografie per le opere di Roland Petit e Henri Pousseur.

Non esiste un cinema della pop art, semmai era molto più pop all’epoca

il cinema di serie B, sicuramente non i film di Warhol, piuttosto concettuali per la loro esaltazione della durata e l’annullamento di qualsiasi scarto tra realtà e rappresentazione. Gli esperimenti anarchici e scanzonati di Raysse, dunque, sono molto lontani dall’immaginario filmico warholiano, più affini semmai alla produzione di un Kenneth Anger – di cui Raysse, tuttavia, non condivide l’afflato spirituale, decadente e misteriosofico – e a quella visivamente anarchica ed ecolalica di Carmelo Bene, i cui film l’artista dichiara tuttora di non conoscere.

E poi, naturalmente, c’è la deriva elettronica. Stranamente non viene mai ricordato il fondamentale apporto pionieristico di Raysse alla storia della “videoarte”; bisogna ammettere che il suo stravolgere le immagini, spingendo al massimo l’acceleratore tecnologico, anticipa quell’estetica della post-produzione che sarebbe arrivata qualche anno dopo, con l’abbandono dell’archeologica videodocumentazione in bianco e nero e l’avvento di macchine in grado di manipolare sempre di più il materiale di partenza. Eppure, con il passare degli anni, i film di Raysse – girati ormai unicamente su nastro magnetico – diventano pauperistici, minimali, a bassa definizione: da Pig Music (1971) e Lotel des folles fatmas (1976), messa in scena di enigmatici rituali, a Intra muros e La petite danse (1978-80). Più articolato e l’autoritratto Sous un arbre perché (1981), in cui Raysse si autocita inserendo spezzoni dei suoi film. Ma l’artista ha continuato a realizzare film anche dopo il duemila, con Ex-voto (2005) e Re-fatmas (2006-2008).

Mentre è ancora visibile (chiude il 30 novembre) l’imponente retrospettiva a lui dedicata a Palazzo Grassi, oggi l’artista francese sarà presente a Firenze, ospite de Lo schermo dell’arte Film Festival, dove presenterà i suoi film conversando con Martin Bethenod.

Nei giorni scorsi abbiamo conversato con lui a distanza, ma il dialogo è risultato un po’ difficile soprattutto per il carattere schivo e riservato di Raysse, piuttosto parsimonioso e lapidario nelle risposte. Volevamo sapere qualcosa di più sul suo cinema e ci tocca invece affidarci alla nostra libera interpretazione, in nome di quella “igiene della visione” che ha dato il titolo a più di una sua opera. Come ha ben scritto Philippe Azoury sul catalogo della mostra veneziana edito da Marsilio: «Per Raysse, il pennello al cinema è il videoregistratore, non la pellicola. Una volta compreso questo aspetto, si colgono meglio le sue naturali distanze dal cinema underground francese», aggiungendo che «i film sono mixati in diretta: si tratta di happening diametralmente opposti all’idea di montaggio, qualcosa di simile all’improvvisazione nel senso musicale del termine. Raysse pratica spesso e volentieri una forma di appropriazione-dirottamento della televisione, dei suoi codici, dei suoi strumenti».

Conversazione con Martial Raysse

Per parlare di cinema partirei dalla sua pittura o, meglio, da ibridi come Suzanna (1964) o A propos de New York en peinturama (1965). Trovo che queste opere mostrino chiaramente quanto i suoi film siano un’estensione della sua pittura. E’ d’accordo?

Assolutamente si, penso che l’artista sia un insieme e qualunque cosa faccia è sempre lui. Inoltre queste proiezioni, come ha detto, avevano come scopo quello di oltrepassare la pittura.

Come spettatore, negli anni ’60, che rapporto aveva con la nouvelle vague e con il cinema di Godard? Un film come Homero presto, ad esempio, nello stesso uso del formato scope e del colore ricorda inevitabilmente Pierrot le fou ma anche i musical di Demy, gli scopitone

Si è molto parlato di queste influenze; del resto si pensa che solo i ricchi influenzino. Che dire invece dell’influsso che la mia pittura potrebbe aver esercitato su quel contesto cinematografico di cui lei parla? Ma – detto tra noi – sono stato ispirato dall’atmosfera generale di quel tempo e, comunque, non ho mai amato quel tipo di film che per me è estremamente commerciale, mentre io ero all’avanguardia.

Jesus Cola è chiaramente una riflessione ironica sul mondo della pubblicità e della moda. Anche in Homero presto la scelta di inserire Penelope dentro una gigantesca tazza trasforma il film in una rilettura dell’Odissea nell’era della civiltà dei consumi.

Si tratta assolutamente di una reinterpretazione derisoria. L’iconografia di Homero presto deriva soprattutto dalle mie creazioni che si sviluppavano all’interno dell’installazione Raysse Beach. La scena della tazza di Homero presto, infatti, riprende la piscina che avevo inserito dentro il mio Raysse Beach.

Un anno dopo Debord avrebbe pubblicato La società dello spettacolo, è stato influenzato da quel testo successivamente o ha avuto scambi con Debord e con il situazionismo?

No, affatto, all’epoca nessuno lesse quel saggio.

L’oggetto è fondamentale sia nei suoi quadri, spesso veri e propri “quadri-oggetto” così come nei suoi film, anche quelli più recenti come Ex-voto (2005). Oggetti che utilizza sia in chiave scenografica che simbolica…

Si, Ex-voto è un film che ha lo spessore di una statua.

Parliamo dell’uso del colore e della stampa in negativo a colori, utilizzata in Homero presto ma soprattutto in Le Grand depart. C’è una differenza nel suo approccio al colore nella pittura e nel cinema, non dico tecnicamente ma concettualmente.

In pittura ci sono le sfumature, mentre al cinema, che è un medium molto diverso, sono attratto dagli strappi cromatici e dai toni stridenti. All’epoca fui criticato da Godard per queste inversioni di colore, mentre devo constatare che in seguito le ha utilizza a sua volta.

Non ha mai avuto paura di eccedere troppo sul versante del kitsch, sull’eccesso iconografico, sulla parodia, sulla citazione?

Al contrario, penso che un artista non possa mai essere abbastanza kitsch, eccessivo, parodistico.

La musica è una componente centrale di molti suoi esperimenti filmici, penso a Camenbert Martial Extra-Doux (1969), quali erano i suoi gustiin quel periodo e come lavorava con la colonna sonora: in alcuni casi sembra che le sequenze siano ispirate ai brani musicali.

I miei gusti musicali sono sempre stati eclettici, ma sono molto legato alla disposizione della componente sonora nel corso dell’azione cinematografica. Per me la musica è come un pennello, che mi permette di donare alle sequenze un collante.

Ritiene riduttiva l’etichetta di “pop” attribuibile ai suoi film. Ho letto che lei non amava il cinema di Warhol, ma preferiva piuttosto i film di Anger, dove c’è un accurato uso del colore e degli elementi scenografici.

Bisogna ammettere che il noiosissimo cinema di Warhol non è altro che un trasferimento sul grande schermo della sindrome di Duchamp. Mi sembra invece che i film di Anger – che ammiro molto – oltre a una reale invenzione formale, contengono un discorso (che non condivido): questo discorso si rivela attraverso il movimento delle stesse immagini poetiche, senza ricorrere ad alcun dialogo esplicito. Questo tipo di approccio, a mio giudizio, è quello che potrei definire il cinema.

I suoi film sono anarchici, visionari, ludici e hanno sicuramente anche elementi politici, ma verrebbe da chiedersi come mai – pur essendo stato impegnato politicamente – lei non abbia realizzato qualcosa di più “militante”e ideologico in quegli anni.

Ho sempre pensato che la meta che volevo raggiungere, prevedesse l’utilizzo di una sorta di lirismo dell’intelligenza e, per fare ciò era su questo che dovevo concentrarmi. Tanto più che allora c’erano dei registi più scanzonati e più adatti di me ad affrontare certe tematiche. In ogni caso Jesus Cola è una graffiante caricatura del ministro della cultura e deride Mao in piena epoca maoista, mentre in Homero presto c’è anche un omaggio a Che Guevara e una critica al presidente degli Stati Uniti Lyndon Johnson. In Camenbert Martial extra-doux al di là di un’arringa in difesa della libertà, molte delle parole che vengono pronunciate sono, dal mio punto di vista, fortemente poetiche. Le Grand Départ, infine, è attraversato da elementi politici, fino agli espliciti riferimenti mostrati attraverso il quadro di Delacroix.

Come nasce l’idea di Le Grand Départ?

Il punto di partenza è la visione della ragazzina che lancia un sasso nello stagno per cancellare le immagini di un sogno che ha visto affiorare nei riflessi dell’acqua.

Nel 1967 sperimenta gli effetti speciali video all’ORTF ci può raccontare di quell’esperienza? Mi pare che lei sia stato un pioniere, almeno in Francia, a interfacciare cinema e video. Negli Usa penso ad Aldo Tambellini o a Scott Bartlett.

La questione non è se sono stato il primo o meno a utilizzare il video, quanto piuttosto il fatto che ho fatto opere utilizzando questa tecnica.

Le piaceva il lavoro di uno sperimentatore televisivo come Jean-Christophe Averty?

Per nulla, trovavo il suo linguaggio di cattivo gusto, oltre ad essere arcaico e banale.

Ci può parlare di come ha lavorato con gli effetti elettronici e le solarizzazioni continue in Portrait Electro e Camembert?

E’ difficile da spiegare perché io, spingendo i bottoni della consolle, spingevo gli effetti elettronici al limite massimo della distorsione, sia dell’immagine che del colore, malgrado i mugugni dei tecnici dell’ORTF, preoccupati che rompessi le loro apparecchiature. Ricordo che quando Portrait Electro fu messo in onda alla televisione, era preceduto da un cartello esplicativo che avvertiva i telespettatori di non toccare le manopole dei loro apparecchi poiché quelle immagini così particolari non dipendevano da nessun disturbo o malfunzionamento, ma il frutto di una precisa scelta dell’autore.

Con quale stato d’animo ha vissuto in generale il passaggio della pellicola al video e perché da un certo periodo in poi ha deciso di non lavorare più con la pellicola?

Sono stato molto felice di essermi sbarazzato di tutta l’accozzaglia tecnica necessaria per le riprese con la pellicola e lavorare al mio cinema nello stesso modo, con la medesima immediatezza che uso quando dipingo.

Come definirebbe i suoi videotape come Pig Music o Intra muros? Mi sembrano quasi performativi (qualcun altro li ha definiti “rituali”). Inoltre sono all’opposto dei suoi film precedenti: lì dominava la composizione netta, pulita, qui la bassa definizione elettronica.

Sì, “rituale” è una definizione che mi sta bene. Per me se l’intensità poetica è percepibile, poco importa della qualità dell’immagine.

Ha mai pensato di realizzare installazioni video oppure ritiene che il massimo dell’”expanded” siano i quadri che inglobano immagini in movimento come Suzanna o A propos de New York en peinturama?

Nella forma artistica detta “videocreazione” è il contesto della galleria o del museo che valorizza l’opera, secondo una sindrome che discende dall’estetica del ready-made, ma io preferisco fare del cinema nel senso vero della parola e realizzare quindi dei veri film.

Cosa pensa del linguaggio dei videoclip musicali odierni, le piacerebbe girarne qualcuno e in caso affermativo per quale band o popstar?

No, ho di meglio da fare.

Negli anni ’60-’70 aveva rapporti con qualche filmmaker sperimentale francese ma anche statunitense (durante i suoi ripetuti viaggi negli Usa) o frequentava artisti-cineasti?

Ho conosciuto bene i cineasti underground ma sono una persona dal carattere molto schivo e solitario…

Ha visto in quegli anni qualche film d’artista italiano o ha conosciuto qualche membro della Cooperativa del Cinema Indipendente?

No, ma adoro Carmelo Bene.

In effetti ci sono delle affinità tra i suoi film e quelli di Carmelo Bene, penso alla struttura teatralmente caotica o all’uso del colore. ha visto film come Nostra signora dei Turchi e Salomè?

Sì, trovo che abbiamo molte cose in comune, anche perché entrambi volevamo fare un cinema alternativo. Purtroppo non conosco Nostra signora dei Turchi, avrebbe un dvd da mandarmi?

Certo, con grande piacere, monsieur Raysse.