Il contributo di Jacques Lacan alla clinica psicoanalitica è, probabilmente, quanto di più significativo e importante c’è nella sua intera opera: proprio dalla pratica quotidiana di ascolto dei suoi analizzanti, infatti, lo psicoanalista parigino seppe estrarre quelle preziose e geniali osservazioni che, fecondate dai saperi di altre discipline – la linguistica, la matematica, la filosofia, lo strutturalismo, la topologia – diedero origine alle sue innovative concezioni in ambito teorico.
In maniera analoga, Massimo Recalcati ha portato a compimento il suo progetto di scrivere quello che può essere considerato, a tutti gli effetti, il primo manuale teorico-clinico in lingua italiana sull’opera di Jacques Lacan. E se nel primo volume (uscito nel 2012), metteva in evidenza la profondità speculativa, metapsicologica e teoretica dello psicoanalista francese, nel volume appena uscito, Jacques Lacan Vol. 2 La clinica psicoanalitica: struttura e soggetto (Cortina, pp. XXII-667, euro 39,00) è l’accurata riflessione sulla clinica psicoanalitica a occupare una posizione di assoluto primo piano. Recalcati, infatti, conduce il lettore (anche quello non formato alla pratica lacaniana) in un percorso chiaro e, al tempo stesso, rigoroso, le cui tappe scandiscono i principali temi della clinica strutturale: il recupero della distinzione freudiana tra nevrosi e psicosi, la specificità della posizione perversa, lo studio della psicopatologia infantile, la definizione di criteri diagnostici, la considerazione del rapporto tra struttura e soggetto e così via.
Il libro è, inoltre, arricchito da un’ampia sezione dedicata alla direzione della cura e al problema della tecnica della psicoanalisi che, insieme all’appendice finale nella quale Recalcati commenta la teoria dei quattro discorsi di Lacan applicandola all’analisi della contemporaneità, attribuisce al libro – avviato da una parte di stampo eminentemente eziopatogenetico – un carattere di assoluta completezza.
Dal saggio emerge chiaramente il talento clinico dell’autore, che si traduce nell’evidente confidenza con i concetti che fondano la pratica psicoanalitica alla quale ha dedicato la propria vita. È, infatti, il Recalcati clinico raffinato e scrupoloso, dotato di un acume e di un intuito raro a venire fuori da questo ampio studio: il Recalcati che ha sempre accettato di prendere in cura casi ‘gravi’ e che, proprio su questa frontiera estrema del trattamento, ha saputo elaborare e formalizzare nuove possibilità terapeutiche, nuove modalità di presa in carico, nuovi luoghi di accoglienza per domande fragili; è questo Recalcati – in parte sconosciuto al grande pubblico – che l’uscita di un tale volume mette in primo piano.
Per chi conosce il suo percorso non sarà certo una sorpresa: Recalcati ha abituato i suoi lettori più interessati alle questioni psicoanalitiche a testi clinici di grande spessore, ormai divenuti riferimenti imprescindibili all’interno del campo lacaniano, da L’ultima cena fino a L’uomo senza inconscio, passando per La clinica del vuoto, sono molti i testi dedicati alla clinica psicoanalitica, uno dei tre grandi vettori della sua ricerca, insieme all’approfondimento dei presupposti filosofici e teoretici della dottrina lacaniana, da una parte, e all’analisi della fenomenologia psicosociale del presente, dall’altra.
Di questa serie, il volume appena pubblicato sembra rappresentare un punto di arrivo in forma di ricapitolazione esaustiva della riflessione sulla clinica lacaniana, filtrata e vitalizzata da anni di esperienza «sul campo», e al tempo stesso un punto di partenza, saturo di spunti, di proposte, di osservazioni, di suggerimenti, di prese di posizione che, pur se rigorosamente fondate sullo studio del testo di Lacan, ne costituiscono una possibilità di avanzamento e di sviluppo. È questo, forse, il merito principale di Massimo Recalcati: aver attraversato l’intera complessità dell’insegnamento di Jacques Lacan e averne proposto una lettura personale, in grado di valorizzare passaggi che il lacanismo attuale tende a sottovalutare.
Tra questi, sicuramente, la centralità del desiderio e della sua potenzialità generativa, che costituisce, in effetti, il fulcro concettuale (ereditato dal Lacan dei seminari degli anni sessanta) intorno al quale Recalcati ha scelto di focalizzare il proprio lavoro di ricerca. Rispondendo così al problema capitale di fronte al quale si è trovata la sua attività clinica (come quella di ogni suo contemporaneo): la tendenza delle persone che abitano il presente a indugiare in un’esistenza ingolfata dal narcisismo, dall’edonismo, dal nichilismo, derive alle quali la debolezza del registro simbolico, l’infiacchimento dell’ideale, il progressivo smantellamento del principio di autorità – ovvero l’evaporazione di ciò che Lacan chiamava il Nome del Padre – sembrano aver spianato la strada.
Il potere del desiderio di contrastare le derive autolesive del godimento, un godimento non più regolato dal limite che il sistema simbolico ha tradizionalmente imposto, trova nell’intero lavoro di Recalcati una accentuazione che lo percorre trasversalmente, la cui più fondata giustificazione sta proprio nella pratica psicoterapeutica. Il trattamento psicoanalitico (come del resto qualunque trattamento psicoterapeutico) riesce nella misura in cui, attraverso il dispositivo significante sul quale è basato (l’utilizzo esclusivo della parola, la non reciprocità della relazione terapeutica, il rispetto di regole necessarie al funzionamento del setting, l’istituzione di un ritmo di presenza-assenza, la promozione della capacità di attendere e della possibilità di sopportare il rinvio, e così via), è in grado di agire sull’economia libidica sintomatica, facendo sì che il soggetto possa mettere al proprio servizio quell’eccesso pulsionale dal quale sarebbe, altrimenti, tendenzialmente cancellato.
È questo un dato clinico incontestabile che Recalcati ha messo al centro del proprio lavoro riuscendo a farne una chiave di interpretazione del presente, così come l’hanno restituita i suoi testi più noti, Cosa resta del padre, Il complesso di Telemaco, L’ora di lezione, dotati di una innegabile forza di penetrazione nell’opinione pubblica. Di questa sua posizione – nella quale alcuni commentatori hanno visto risvolti problematici sul piano teorico, per la possibile esposizione a letture di tipo nostalgico, motrici di sentimenti di rimpianto nei confronti di un ordine culturale superato dalla storia – l’argomentazione sul piano clinico manifesta, al contrario, una coerenza difficilmente confutabile: la prepotenza pulsionale in gioco nelle cosiddette nuove forme del sintomo – attacchi di panico, dipendenze, depressioni, sociopatie adolescenziali, tendenze all’isolamento, iperattività infantili – può essere contenuta e canalizzata in altro solo grazie a un assetto terapeutico che funzioni, a tutti gli effetti, come argine simbolico.
Detto altrimenti: le possibilità di cura del disagio contemporaneo sono profondamente dipendenti dalla forza con cui l’intervento terapeutico sa imporre una misura, una continenza, un principio di moderazione alla pulsione di morte che, nelle sue molteplici manifestazioni, spicca come tendenza dominante del mondo occidentale.

Come se, l’indubbia pertinenza delle considerazioni maturate in ambito clinico costringesse a pensare la necessità – spostata, questa volta, sul piano macrosociale e culturale – di inventare nuove forme del simbolico, per avvalersi di nuovi sembianti, costruire nuove forme di narrazione che, lungi dal trasformarsi in sussulti reazionari, si dimostrino capaci di ripristinare un concetto di trascendenza, e di riabilitare una funzione sublimatoria in grado di contrastare la presa desoggettivante e annichilente della sintomatologia ipermoderna. Quasi che – sembrerebbe affermare Recalcati – l’esortazione di Freud a trarre dalla clinica gli elementi necessari alla fondazione e allo sviluppo della teoria possa essere estesa alle riflessioni sociologiche e agli studi antropologici. E come se, coerentemente all’insegnamento di Lacan, pur dovendo fare a meno del registro simbolico, fossimo tutti chiamati a servircene.