«L’utero è mio e lo gestisco io», «Tremate tremate, le streghe son tornate»: così gridava nelle strade degli anni ’70 il movimento femminista per la liberazione della donna; non solo più mamme e mogli, ma individui capaci di decidere la propria vita, dal punto di vista lavorativo, sociale e anche sessuale. «Non più puttane, non più madonne, finalmente donne».

Oggi tutto questo sembra preistoria a leggere l’appello che le femministe di «Se non ora quando» (Snoq) hanno lanciato alle istituzioni europee contro l’utero in affitto affinché venga bandito a livello globale.
Innanzitutto l’uso dell’espressione «utero in affitto» è strumentale: nei dizionari e manuali di bioetica si parla di maternità surrogata, cioè una donna porta avanti la gravidanza per un’altra donna che, per diversi motivi, non può farlo a sua volta. Sul bambino che nascerà la gestante non avanzerà alcun diritto. A questa pratica possono ricorrervi donne senza utero ad esempio o che siano affette da patologie tali da non poter né iniziare né portare avanti una gravidanza. E possono ricorrervi anche coppie omosessuali.

Il dibattito bioetico sull’eventualità di stilare un elenco di possibili «donatrici» di utero o di creare una apposita commissione, ad esempio, che passi al vaglio le possibili madri surrogate e le coppie adottive e stabilisca anche un onorario equo, o ancora la possibilità di emanare una regolamentazione legale che vincoli le parti, è ancora aperto. L’obiettivo rimane quello di evitare lo sfruttamento delle donne, soprattutto quelle in situazioni di indigenza che per soldi si presterebbero a portare avanti la gravidanza.

In Italia tale pratica è vietata dalle legge 40 del 2004 che regola la fecondazione medicalmente assistita: «Chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro».

Nel resto del mondo si procede a macchia di leopardo. Tuttavia la surrogazione di maternità ha radici molto lontane: nel Vecchio Testamento, al capitolo 16 della Genesi, si narra che Sara, ormai settantacinquenne, convinse Abramo ad avere un figlio dalla propria schiava Agar; nell’antica Roma era diffusa la pratica del ventrem locare, per cui un uomo cedeva la propria moglie ad un amico, che non aveva avuto la fortuna di sposare una donna fertile, per poi riprenderla subito dopo il parto.

Tornando al manifesto femminista, troviamo scritto «Non possiamo accettare, solo perché la tecnica lo rende possibile, e in nome di presunti diritti individuali, che le donne tornino a essere oggetti a disposizione: non più del patriarca ma del mercato».

Estendere il diritto alla libertà procreativa, legalizzando la maternità surrogata, non significa affatto rendere la donna un oggetto. Significa dare alla donna la possibilità di autodeterminarsi, di scegliere. Perché oggi il vecchio slogan «l’utero è mio e lo gestisco io» non dovrebbe valere più? Perché una donna dovrebbe sentirsi così debole da affidare ad uno Stato o ad un organo internazionale la tutela del proprio corpo, altrimenti qualcuno lo sfrutterebbe? Dov’è finita la radicale tutela delle libertà individuali in materia di inizio vita per le quali si è tanto combattuto 40 anni fa?

La deriva che il manifesto femminista vuole prendere è quella di uno Stato bioetico, paternalista che per paura di teoriche conseguenze (quello che in filosofia chiamano slippery slope – pendio scivoloso), come la commercializzazione del corpo o parti di esso, vieta tout court una pratica che, se ben regolamentata, potrebbe dare la gioia di un bambino ad una coppia.

Le grandi conquiste in campo medico e scientifico che hanno ampliato le forme di procreazione sono state sempre accompagnate dal riconoscimento della responsabilità procreativa: è indubbio come scrive il filosofo Eugenio Lecaldano che «le scelte procreative di cui ci occupiamo sicuramente coinvolgono altri esseri umani. Dunque chi prende una decisione con conseguenze procreative non può non offrire ragioni morali per essa, in primo luogo per assicurare che le sue scelte non procurino danno a chi nasce e poi anche alle persone coinvolte».

Ma dove sono le ragioni delle donne nell’appello di «Se non ora quando»? Il loro manifesto ha più la parvenza di slogan messi in fila senza dati scientifici o elementi che arricchiscano un dibattito medico ed etico.
Un’altra fallacia in cui incappano le «Snoq libere» è questa: «Il desiderio di figli non può diventare un diritto da affermare a ogni costo».

Nessuno vuole legittimare il diritto alla procreazione, né tantomeno quella a tutti i costi. Avanzare il diritto ad avere un figlio a tutti i costi significherebbe che uno Stato, in nome del diritto di ciascuno ad avere una propria prole, dovrebbe assumersi il compito di fornire risorse a tutti quei suoi cittadini che desiderino avere un figlio.

Quello che tenta invece di essere difeso in uno Stato liberale è il diritto alla libertà procreativa, chiedendosi cioè fino a che punto siano legittime alcune tecniche che consentono la fecondazione. Il diritto alla libertà procreativa si inserisce primariamente in una riflessione sulla responsabilità procreativa. Al contrario, il manifesto femminista (ma fino a che punto?) si sbarazza in poche righe dei principi di libertà, di conoscenza, di responsabilità individuale.