Continua, insieme ai feroci tweet con cui Donald Trump bersaglia ogni giorno i suoi esponenti, la crisi d’identità dell’establishment mediatico Usa. In un lungo editoriale dal titolo Verità e menzogne nell’era di Trump, il New York Times di domenica parlava di collasso di una «realtà pubblica condivisa», accusando il presidente eletto di irresponsabilità per aver sfruttato opportunisticamente tale collasso (producendo lui stesso bugie belle e buone), piuttosto di riconoscerne il pericolo.

NELLA RUBRICA SETTIMANALE riservata ai media, sul NYTimes di lunedì, James Poniewozik concludeva che il processo politico del paese è stato risucchiato in quel canale Tv a cui Trump avrebbe dovuto dedicarsi una volta sconfitto da Hillary Clinton -il palinsesto siamo noi…E, viste le guerre personali condotte a forza di tweet, la teatralità alla Apprentice delle nomine del gabinetto e i quotidiani specchietti per le allodole come la photo op con Di Caprio, mentre dietro alle quinte parte la caccia alle streghe dentro al ministero per l’ambiente, è difficile dargli torto. L’erosione della verità, nelle news, non è una novità – dopo tutto gli Usa hanno invaso l’Iraq sulla base di una menzogna e, già nel 2002, uno stretto collaboratore di Bush (al tempo si disse che era Cheney) aveva preso in giro il NYTimes perché viveva ancora in un mondo basato sulla realtà: «siamo un impero, la realtà la creiamo noi». Ma che il maggior quotidiano d’America parli di breakdown di un’oggettività condivisa dei fatti è un’ammissione di debolezza enorme.

COME IL TIMES anche gli altri grandi giornali americani e le Tv stanno dibattendosi in questa crisi, per mantenere rilevanza e credibilità in un contesto dove il risultato elettorale si vive ogni giorno di più come uno scippo avvenuto in una nebbia di cui i media sono stati complici, più o meno involontari. In risposta a questo contesto, sulle maggiori testate, aumentano ogni giorno i reportage investigativi (incredibile quello fotografico dalle Filippine, sulle stragi di Duterte, che si vanta dell’apprezzamento di Trump), le storie di denuncia alle false news e, persino sulle reti via cavo, i giornalisti sembrano più intransigenti, con fonti e intervistati.

E ci sono sintomi che anche il pubblico sta cominciando a preoccuparsi. Tra i dati più interessanti è infatti quello dell’impennata delle donazioni a istituzioni giornalistiche indipendenti, alternative, non profit e a organizzazioni watchdog. Da metà novembre a oggi, le donazioni a ProPublica il website giornalistico fondato una decina anni fa da fuoriusciti del New York Times e del Wall Steet Journal hanno toccato i 750.000 dollari, contro i 500.000 che avevano costituito l’intero introito del 2015.

GRAZIE AL NUOVO INFLUSSO di contante, promosso persino da John Oliver sul suo news magazine Hbo, ProPublica ha potuto investire più mezzi in inchieste sull’impennata di hate crime che ha seguito la vittoria di Trump e sulla rinascita dei gruppi di suprematisti bianchi. Tra gli altri soggetti d’inchiesta previsti, l’immigrazione e il commercio, due cavalli di battaglia del prossimo governo.

Al Consorzio dei giornalisti investigativi del Center for Public Integrity, di Washington (una delle forze dietro alla pubblicazione dei Panama Papers), le donazioni per il 2016 sono salute del 70 percento rispetto a quelle dell’anno scorso. Al Marshall Project, creato due anni fa e che fa reporting sul sistema giudiziario americano, del venti. Aumenti di donazioni e ascoltatori anche per molte delle stazioni che trasmettono i programmi della National Public Radio. E dall’elezione a oggi, il New York Times ha registrato un incremento di 132.000 abbonamenti.