Meglio la strada sicura o l’ignoto? È questo, secondo gli analisti internazionali, il dilemma in corso a Pechino di fronte alle elezioni americane.
Secondo un recente sondaggio, e al contrario di quanto sostenuto da molti media occidentali, ai cinesi non piace Donald Trump; anzi il miliardario verrebbe visto come un «pericolo» per la Cina nel caso dovesse diventare presidente.

Se è vero che «The Donald» potrebbe dare vita a una politica isolazionista da parte degli Stati uniti, allo stesso tempo si è più volte espresso contro le politiche commerciali della Cina. Pechino teme un peggioramento delle relazioni economiche, anche se non mancano le eccezioni. Secondo Daniel Bell, un attento studioso della Cina contemporanea, parte dell’elite del partito comunista, benché non abbia dato alcuna indicazione di voto, sarebbe più favorevole a Trump anziché a Clinton.

Ma le ragioni non sono di natura internazionale, bensì interne. Secondo questi «riformatori» (o supposti tali) del Partito, una eventuale politica protezionista da parte di Trump spingerebbe ancora di più la Cina a cercare soluzioni alla propria dipendenza da esportazioni. In particolare, arriverebbe il momento per mettere finalmente mano alle aziende di stato. Un po’ come avvenne con l’ingresso della Cina nel Wto e l’espulsione di grandi masse di lavoratori dalle unità di produzione statale.

Una fazione del Partito comunista, invece, quella più specificamente vicino al leader Xi Jinping (che proprio ieri ha provveduto a usare la sua nuova carica di «nucleo» per cambiare tre ministri tra i quali quello delle finanze, facendo fuori probabilmente l’economista cinese più noto all’estero) e quindi già impegnata nell’amministrazione, forse preferisce Hillary.
Clinton ha molti punti negativi agli occhi dei cinesi: ha spesso sottolineato il tasto dei diritti umani e soprattutto ha sempre appoggiato in pieno la strategia obamiana di «pivot to Asia» che Pechino legge come contenimento.

Questi sono rischi, ma la dirigenza comunista non ama le improvvisazioni e la sorpresa. Nonostante gli aspetti strategici negativi, Pechino saprebbe come affrontare una politica tradizionale come Hillary, sperando – o almeno così suggerisce David Bell – che possa farsi consigliare da una vecchia volpe delle relazioni internazionali (e grande conoscitore della Cina) come l’ex segretario di Stato Henry Kissinger.

Sul fronte russo sembrerebbero esserci pochi dubbi sulle preferenze dello zar Vladimir Putin. Pubblicamente lodato da Trump, secondo i democratici proprio i russi sarebbero dietro i recenti attacchi hacker sofferti dal team della campagna elettorale di Hillary. Secondo alcuni media – in realtà – si tratterebbe di appoggi e reciproci complimenti di facciata, perché anche PUtin parebbe fidarsi poco dell’imprevedibilità di Trump.

Di sicuro il presidente russo non avrà un rapporto idilliaco con Hillary, «madre» a suo modo di vedere di tutto il disastro ucraino e – secondo rumors – pronta ad affidare la carica di segretaria di stato proprio a quella Victoria Nuland che ebbe un ruolo prominente durante la Maidan di Kiev e che sentenziò l’inizio dell’era Yatseniuk (apostrofoto come «our guy») mandando a quel paese l’Unione europea (la celebre intercettazione nella quale Nuland urla «Fuck Eu»).

Con Hillary alla presidenza per Putin cambierà poco: troverà la stessa ostruzione, anzi forse di più di Obama. Ma come per Pechino, anche per Mosca potrebbe essere, forse, meglio muoversi su sentieri diplomatici già battuti, scansando pericolose sorprese.