Novanta anni fa la Città eterna includeva nel suo comune l’allora borgo rurale di Tor Pignattara, facendone un’ulteriore area dell’amministrazione capitolina fuori dalle Mura Aureliane.

Oggi lo storico quartiere romano è un territorio caratterizzato dalla complessa composizione multiculturale e dalla rilevanza della comunità migrante. Un territorio che non può descriversi limitandosi alla ricerca dell’esotico nella comunità migrante, e tantomeno alla ricerca, tra gli abitanti storici, della vera Roma di borgata che ha ormai abbandonato il centro.

Qui,gli odori speziati della cucina asiatica si mescolano con quelli della tipica pizza romana; alcuni giovani parlano uno slang fatto di parole orientali e accenti romani; autoctoni condividono il pianerottolo con famiglie del Bangladesh.

Poco più di due anni fa, un giovane del quartiere ammazzò un ragazzo pakistano, Muhammad Shahzad, provocando fortissime tensioni sociali. Due giorni dopo, un cordone di trecento donne si prese per mano abbracciando la quasi totalità del quartiere, trasformando quella performance di arte partecipativa in una dimostrazione d’amore verso un quartiere profondamente ferito dalla violenza.

Un gesto che simboleggiò la vivacità e resilienza del tessuto associativo territoriale, caratterizzato da una forte partecipazione femminile, in cui si stanno sperimentando anche nuove forme di fare rete nello spazio urbano.

Le celebrazioni per ricordare i novanta anni di Tor Pignattara sono iniziate il 12 gennaio, con la posa di sei «pietre d’inciampo», opera dello scultore tedesco Gunter Denming, in memoria dei partigiani del quartiere trucidati alle Fosse Ardeatine, e dureranno un anno intero. Un programma teso alla valorizzazione del patrimonio storico, culturale e sociale del territorio.

Claudio Gnessi, presidente dell’Ecomuseo Casilino, tra i promotori principali dell’iniziativa, spiega i due obiettivi principali dell’iniziativa. «Innanzitutto, dare un orizzonte di carattere temporale al lavoro di costruzione dell’identità territoriale nella nostra comunità. Poi, conseguire il riconoscimento di Tor Pignattara come rione storico, per il suo patrimonio storico e la sua importanza attuale. Epicentro della resistenza romana al nazifascismo, il quartiere ha avuto un ruolo fondamentale nella costruzione dell’identità democratica della città. Oggi, invece, il territorio sta costruendo l’identità nuova di Roma. Un’identità plurale, multiculturale, fatta di pezzi diversi che si amalgamo insieme con difficoltà e complessità, ma di cui inevitabilmente si compone il futuro della città».

Recentemente, l’Ecomuseo Casilino ha realizzato una mappatura dei beni culturali. Diversi laboratori di progettazione partecipata con la comunità, in cui sono state disegnate possibili traiettorie di sviluppo territoriale basate sull’autogoverno. Un progetto che s’inserisce nel quadrante est dell’Urbe, dove diversi quartieri stanno soffrendo processi di gentrificazione.

«Il problema della gentrificazione è in realtà un problema della governance dei territori», spiega ancora Claudio Gnessi. «Se questi flussi umani che attraversano gli spazi urbani non vengono governati, si creano problemi gravissimi per le comunità. In una ex periferia come Tor Pignattara, questo esercizio di governo dello sviluppo territoriale, visto l’abbandono istituzionale, è molto fragile, frutto solamente dell’autogestione dei soggetti attivi nella zona. Senza questo tessuto associativo che ne gestisce la complessità, il quartiere avrebbe più volte rischiato di precipitare in una situazione di caos e guerra civile. Come quella volta in cui trecento donne abbracciarono il quartiere dopo l’omicidio di Khan Shahzad».

Una complessità che trova poco spazio nell’approccio sensazionalista e distante dei media. Infatti, su Tor Pignattara si alternano narrazioni che descrivono un quartiere a rischio esplosione sociale, con altre che la prendono a modello di integrazione interculturale. «Il problema non è solamente la narrazione che trasforma la comunità musulmana nel “califfato di Torpigna”. Ma bisogna anche superare un certo atteggiamento mediatico superficialmente accondiscende che descrive il quartiere in maniera macchiettistica. Le narrazioni che vogliono dare un’immagine positiva del quartiere finiscono per farne una descrizione in stile guida turistica: tutto diventa caratteristico ma sparisce la complessità. Si produce così un immaginario fatto di luoghi comuni che non sfiora nemmeno la realtà. Tutto il contrario di quello che serve per comprendere le periferie, cercare di dare conto della loro complessità attraverso la partecipazione della moltitudine».

Nel comitato scientifico dell’Ecomuseo Casilino c’è anche Alessandra Broccolini, docente universitaria di antropologia, che spiega come questa complessità avvolge l’insieme dei processi di trasformazione urbana che vive Tor Pignattara, un territorio per molti aspetti speciale.

«Per esempio, tornando alla questione della gentrificazione, qui si può parlare di un processo abbastanza peculiare. Quasi di un processo all’inversa. La comunità bangladese ha conformato una classe, che – precisa Alessandra Broccolini, docente di Etnografia all’Università La Sapienza di Roma – ha realizzato una specie di gentrificazione controegemonica ai piedi del cinema Impero: il cinema nato nel ventennio fascista per enfatizzare le imprese coloniali italiane in Africa. Oggi, proprio lì sotto, questa vivace comunità migrante rivendica il fatto di aver rivitalizzato l’economia del quartiere. Che comunque non ha vissuto un vero e proprio processo di gentrificazione: non c’è stata una fuoriuscita degli abitanti storici, bensì una mescolanza di classi e nazionalità diverse».

In questo complesso mosaico diversi soggetti territoriali provano a trasformare questa complessità sociale in ricchezza politica per lo sviluppo territoriale. «Non dobbiamo fare l’errore di raccontare il quartiere come una realtà rosea – conclude Broccolini – Ovviamente la complessità c’è, ma può essere una ricchezza se viene governata. È proprio dalla complessità che nascono le idee e le iniziative migliori. Se gli abitanti non avessero avvertito la minaccia di speculazione sul loro quartiere, non sarebbe mai nata un’esperienza di partecipazione come l’Ecomuseo Casilino».