Regista liminale e fieramente devoto alla sacralità della forma-cinema, il portoghese Vitor Gonçalves, con soli due film girati nell’arco di tre decenni, ha cesellato un cinema turgido di pulsazioni, di sguardi vuoti a una finestra, di inquietudini sulla soglia della percezione e di respiri nei bordi di inquadrature limpide in illuminati scorci. Dopo il folgorante esordio nel 1986 con Uma rapariga no verão, film struggente e misterioso che racconta le tormente estive di una giovane ragazza, il regista si è dedicato alla produzione e all’insegnamento alla scuola di cinema di Lisbona per poi riapparire due anni fa, con enorme sorpresa, in concorso al Festival Internazionale del Film di Roma del 2013 con A vida invisível, storia di Antonio, anima assiderata dal timore della sconfitta dell’esistenza. I protagonisti di Gonçalves sono presenze che si nutrono del fuori campo, dei coni d’ombra che covano in un’inquadratura, di un raccordo che desidera costantemente una speranza di futuro. Vivono e sognano, con il timore di pronunciare la parola felicità, in un mondo interiore che, per emergere, può affidarsi quasi esclusivamente all’audiovisivo dove la luce, lo spazio e i movimenti di macchina, uniti alla manifestazione emotiva attraverso la musica, veicolano alla massima potenza la tragedia di chi non si sente vivo. Abbiamo incontrato il regista al festival I Mille Occhi di Trieste poco prima dell’assegnazione del premio Anno Uno, un riconoscimento accolto «con umiltà, commozione e una gratitudine velata di sorpresa».                                                                                                                                                                                            

a-girl-in-summer

Lei è stato un allievo di Antonio Reis alla scuola nazionale del film di Lisbona, che negli anni successivi la vedrà a sua volta docente di cinema. Che ricordo conserva di Reis e quale eredità «didattica» le ha lasciato?
Penso di essere stato fedele, in un certo modo, al lascito di Antonio, alla sua concezione di un’immagine molto sofisticata. Antonio era un regista poco incline alla narrazione in senso classico. Per lui l’importante era controllare il senso della storia e ha tramandato, come nessun altro, l’approccio alla forma, allo spazio del cinema, l’allenamento di uno sguardo molto profondo sulla messa in scena e da noi studenti, quando ci avvicinavamo all’immagine, richiedeva l’abilità di guardare veramente dentro. Aveva una passione estrema per il cinema ed era capace di trasmetterla agli studenti, credo che abbia toccato tutti noi. Molti anni dopo, quando anch’io sono diventato insegnante, ho cercato di instaurare un dialogo vivace e profondo con i ragazzi di fronte a un film, ed è per questo che ne mostro tantissimi. Credo che sia qualcosa di fondamentale, c’è una memoria del cinema che sento l’esigenza di trasmettere.

Poco fa ha accennato al «rifiuto», da parte di Reis, di una narrazione tradizionale. Colpisce però, guardando «Uma raparìga no Verao» ma anche «O Sangue», primo film di Pedro Costa da lei prodotto, un bisogno di guardare ai modelli di tanto cinema classico americano. Nel suo caso «Splendore nell’erba» di Elia Kazan, in quello di Costa i film di Nicholas Ray…
E’ vero, quando ero studente guardavo continuamente il cinema classico americano, ma anche i b-movie, e quando ho iniziato a fare film quelle immagini erano ormai dentro di me. Splendore nell’erba era un film importantissimo perché aveva un’atmosfera e una sensibilità che sentivo pienamente mia, che mi ispirava. Kazan è stato davvero un faro anche perché in quel film raccontava di una giovane ragazza all’inizio della vita, proprio come la mia protagonista di Uma raparìga no Verao.

Le sue immagini, così precise da un punto di vista formale, regalano anche un senso di libertà, di grande apertura, di disponibilità alla sorpresa. Questa duplice natura è già presente anche nella fase di scrittura dei suoi film?
Si, lavoro con una sceneggiatura per così dire «aperta». Sono ossessionato dalla struttura, dallo sviluppo delle idee e molte volte ho eliminato delle scene per inserirne altre all’ultimo minuto. Quello che cerco di fare è una meditazione sui sentimenti dentro una struttura convenzionale ma fluida allo stesso tempo. Lavoro di continuo alla riscrittura anche con gli attori, specialmente nel caso di A Vida Invisìvel, mentre in Uma raparìga no Verao, sentivo che non potevo chiudere la sceneggiatura anche perché le aspettative e i sogni della protagonista non possono avere un finale o una risoluzione.

Anche in fase di montaggio il suo metodo prevede l’apertura al cambiamento e alla sorpresa?                                                                                          

29unavidainvisible

Sì, è «aperto» come la scrittura perché, quando monto, sono consapevole di dover rispettare il senso drammaturgico del racconto. Devo essere concentrato sulla luce, sulla progressione, devo essere fedele alle immagini girate anche se credo che proprio in fase di montaggio si possano far emergere delle cose che forse, con la macchina da presa, non si è stati in grado di cogliere nella loro interezza. Per questo devo anche essere aperto, per donare alla riprese una nuova forma.

 

 

L’ultima domanda, quasi obbligatoria, è se prevede di tornare a breve sul set o se saremo obbligati ad attendere ancora molti anni prima di ritrovarla al cinema?
Sto lavorando a un terzo film, anzi credo di essere attratto dall’idea di fare un nuovo film. Non passeranno troppi anni anche perché, nel finale di A Vida Invisìvel, il protagonista finalmente esce di casa e anche io voglio uscire da quella casa, abbandonare la stasi di quel film per tornare a osservare i maremoti della vita.