Michal Kayam è una famosa artista israeliana, che si prepara alla biennale di Venezia con un’opera scioccante ed ancora segreta; Nadine invece è una ragazza palestinese tutti i giorni costretta ad attraversare il check point per andare a lavorare da Ikea, da cui verrà licenziata perché proprio Michal chiama l’azienda per lamentare la mancanza di una vite dal nuovo letto che ha ordinato. Self Made, opera seconda di Shira Geffen – già regista con il marito Etgar Keret di Jellyfish, vincitore a Cannes della Camera D’Or nel 2007 – inizia con una sequenza in cui Michal cade dal letto, che si è rotto, e dopo aver salutato il marito in partenza per una missione di lavoro ordina un nuovo letto dalla nota azienda svedese. Cadendo ha sbattuto la testa e questo evento le ha fatto perdere progressivamente la memoria, pretesto con il quale il film scivola in una dimensione sempre più surreale nel seguire le vicende delle due protagoniste, diversissime tra loro ma ugualmente sperdute, e destinate a scambiarsi le reciproche identità quando si incontreranno al check point. Nadine vive nel suo mondo, desidera tantissimo un figlio ma l’uomo che le piace vorrebbe fare di lei un’attentatrice suicida. Michal invece scopre che l’opera scioccante che voleva esporre alla biennale era il suo stesso utero, che in un gesto di rifiuto della maternità si era fatta rimuovere. Nel seguire queste due donne, Shira Geffen si interroga in primo luogo sull’identità femminile e sul paradossale intreccio di desiderio di maternità e di autodistruzione, ma ritrae una condizione profondamente politica, in cui un confine separa due mondi vicinissimi e distanti allo stesso tempo, che si incontrano solo nell’anonimato delle sale sterminate di Ikea.
Self Made, uscito l’anno scorso, è stato proposto ieri in anteprima italiana allo Sguardi altrove Film Festival, nella sezione dedicata alle prospettive femminili sul Medio Oriente.

Il film è incentrato su un surreale scambio di identità tra due persone, che da un lato ci mostra qualcosa di molto privato – due tipi di femminilità – e dall’altro qualcosa di molto politico: i due lati del confine.

Credo che il tema principale sia l’identità, mentre l’aspetto politico rimane più sullo sfondo. Ma io sono una persona che si occupa di politica, per cui per me era molto importante dire ciò che penso, dal momento in cui ho scelto di vivere in un posto complesso come Israele. Una decina di anni fa ho letto un’intervista a una giovane donna palestinese di Betlemme; l’esercito israeliano aveva ucciso il suo fidanzato e l’avevano convinta a fare un attentato suicida. L’hanno mandata insieme ad un ragazzo di sedici anni a farsi esplodere in un centro commerciale, in cui ha visto tutte le persone che facevano shopping e mangiavano il gelato. Ha raccontato che la cosa che avrebbe voluto fare istintivamente sarebbe stata di unirsi a loro, andare a fare shopping. Così ho pensato subito a lei con la cintura esplosiva, che probabilmente la faceva sembrare una donna incinta, che va in un negozio a comprarsi un abito premaman. E continuavo a pensarci costantemente: al momento in cui vuoi morire e a quello in cui vuoi vivere, e quando esattamente scatta il cambiamento. Per cui ho iniziato a fare ricerche, e sono stata a Ramallah a casa della prima attentatrice suicida. Avevo paura di quale sarebbe stata la reazione della madre, ma poi nel momento in cui questa anziana signora mi ha vista mi ha abbracciata, mi sono sentita come sua figlia, e tutto si è confuso nella mia testa. Questo è il seme da cui è nato Self Made.

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In questa indagine dell’identità femminile uno dei tratti principali è che il desiderio di maternità è collegato anche a un impulso di morte. Non solo a causa del possibile attentato ma anche per via del rifiuto di Michal per l’idea di poter mai avere un figlio. 

La connessione è già in me stessa: ho messo al mondo un figlio e mi chiedo sempre in che genere di posto l’ho fatto nascere, ma credo anche che quando si dà alla luce un’altra persona si muoia sempre un po’. È una questione che ha molti aspetti: io stessa non volevo un figlio finché non ho incontrato mio marito, e lui mi ha dato la sicurezza necessaria per farlo.

Le recenti elezioni in Israele hanno visto nuovamente la vittoria della destra di Benjamin Netanyahu. 

È un argomento per me molto doloroso. Credo che Bibi Netanyahu spaventi le persone e per questo motivo lo votano. E la sinistra, di cui faccio parte, si ritrova impotente. Mio padre, Yehonatan Geffen, è un giornalista e un comico, anche lui fortemente di sinistra, e il giorno dopo le elezioni ha detto dal palco che tutte le persone che hanno votato per Bibi hanno votato anche per la prossima guerra, in cui di nuovo moriranno dei bambini. Più tardi un uomo è andato a casa sua, ha bussato alla sua porta e quando mio padre – un uomo solo di 67 anni – ha aperto, l’ha attaccato e picchiato. Da noi non si può parlare della guerra: noi israeliani siamo come la protagonista del mio film, non abbiamo memoria, abbiamo perso tanti figli in guerre stupide, abbiamo ucciso tanti palestinesi. Ma per cosa? Tra un anno ci sarà la stessa identica guerra.

Oltre alla perdita della memoria, anche il tema dell’identità si può leggere attraverso l’attualità di Israele, un paese in cui ha prevalso la linea di una destra che vorrebbe farne un paese solo ebraico… 

Il governo di estrema destra che ci troviamo adesso cova l’idea di rendere Israele il paese degli ebrei, ignorando che metà della popolazione è araba e che abbiamo portato via la terra dei palestinesi. Ecco credo – come artista – che sia giusto dire che ci sono altre opinioni nel paese di persone che vogliono la pace. Se guardi la CNN sei portato a pensare che tutti gli israeliani siano come Bibi Netanyahu, mentre ci sono tanti ebrei come me, che vogliono un futuro migliore per i loro figli.