Ricki Randazzo (nata Linda Brummell) divide il suo tempo tra la cassa di un supermercato per yuppie e gli sgangherati palcoscenici di sgangheratissimi bar nel sobborgo losangelino di Tarzana – in quella San Fernando Valley che piace tanto a Paul Thomas Anderson. Il look dark rock agè che evoca le glorie di Joan Jett e Chrissie Hynde, il body language alla Bonnie Raitt, Ricki e la sua band, i Flash, hanno un repertorio anni settanta doc, che viene punteggiato di Lady Gaga e Pink quando dal pubblico moderatamente anestetizzato dall’alcol emergono troppi segni di impazienza. È questo il mondo su cui si apre Dove eravamo rimasti (in Usa dove esce il 7 agosto è Ricki and the Flash, in Italia il film sarà nelle sale dal 10 settembre), singolare punto d’incontro dei talenti di Meryl Streep, Jonathan Demme e Diablo Cody, con in più Kevin Kline, la rock star australiana Rick Springfield, il bassista di Neil Young Rick Rosas (mancato dopo le riprese del film) e alla tastiera Bernie Worrell (Parliament- Funkedelic).

Scostante, piena di sè fino al ridicolo (di paragonarsi a Mick Jagger), visibilmente logorata dagli anni, l’aura di un elefante in una cristalliera, il credo politico un po’ Tea Party, Ricki (Streep) è una di quelle donne che Cody scrive benissimo, in un perfetto equilibrio di cattiveria e compassione, come la Mavis dell’incompreso Young Adult. Come lei, Ricki, invece di «crescere» è rimasta ancorata a un sogno giovane, nel suo caso quello del rock ‘n roll. È per quel sogno – vivo tutt’oggi, non importa quanto appassito in provincie geografiche e musicali- che molti anni prima ha lasciato la famiglia. Come Mavis, all’inizio del film, anche Ricki deve tornare a casa quando sul cellulare a cui non risponde mai, appare un numero di Indianapolis. Sua figlia Julie (Mamie Gummer, figlia di Streep anche nella realtà) è stata lasciata dal marito ed è piombata in una grave depressione.
Cut e, dal disordinato pianeta Tarzana, che però lei controlla benissimo, se necessario umiliando pubblicamente il chitarrista della band (Springfield) che la ama molto, Ricki atterra in quello ordinato di un lussuoso villaggio residenziale del Midwest, dove l’ex consorte Pete (Kline) la aspetta con un sorriso zen, e Julie, irsuta e in pigiama perché non si veste o si lava da giorni, la saluta come un patetico revival degli anni ottanta. Prima di sbatterle la porta in faccia.

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La passione per la musica (Stop Making Sense, Storefront Hitchcock, i tre documentari su Neil Young e l’ultimo, su Enzo Avitabile) e quella per le donne «sbagliate» (prima ancora di Melanie Griffith in Qualcosa di travolgente, i cormaniani Femmine in gabbia e Crazy Mama, fino al recente Rachel sta per sposarsi) sono i due grandi leit motiv della filmografia di Jonathan Demme, regista ideale – quindi- per Ricki, probabilmente suggerito da Meryl Streep, arrivata prima al progetto e con cui aveva già lavorato al remake di The Manchurian Candidate. Gli ultimi anni trascorsi girando perlopiù documentari autoprodotti, televisione e (autoprodotto anche quello) l’adattamento da Ibsen The Master Builder, Demme affronta questo suo ritorno ufficiale al cinema da studio (Sony) unendo il suo feel caldo, istintivo, per la ripresa «dentro» la musica a una mise en scene più ferma, posata, quando la storia si sposta a casa di Pete, dove Ricki si installa perché non ha nemmeno i soldi per pagarsi un hotel. Il regista di Il silenzio degli innocenti, che con il passare degli anni si è fatto un po’ più sentimentale, filma con affetto la spiacevole dissonanza che il ritorno della mamma porta in famiglia.

Oltre a Julie che, si scoprirà, ha cercato di suicidarsi, uno dei due figli l’accusa di aver ignorato la sue identità gay, l’altro, fidanzato con un’impettita ambientalista, progetta nozze a cui ha già deciso di non invitarla. A poco a poco, Ricki inizia a modulare un po’ meglio la sua catastrofica rentrée, riconquistando Julie con una spedizione fuori porta dal parrucchiere e la traccia di una scintilla erotica con Pete grazie a una bustina di marijuana nascosta nel pienissimo maxi frigo simbolo del benessere suburban.

Il rientro a casa dell’attuale moglie di Pete (era in visita dal padre malato) mette fine all’implausibile idillio e piazza Ricki con chitarra a bordo di un pulmino diretto all’aeroporto: te ne sai andata e io ho riempito il vuoto che si era creato nella tua famiglia. Adesso è la mia – le dice la signora, gentile ma decisa. Anche lei, come tutti in questa «dramedy» (Variety) è una brava persona. La dolcezza dell’occhio di Demme, e probabilmente anche il mandato dello studio, smussano l’asprezza della penna affilata sulla carta vetro della chicagoana Diablo Cody, la cui sensibilità blue collar/pop e il gusto per il dettaglio, insieme a un’originale, non pc, prospettiva femminista, spiccano comunque in contrasto con la maggior parte di quello che si scrive a Hollywood. Il personaggio di Ricki è stato ispirato da sua suocera, cantante in una band sulla costa del New Jersey.

Per interpretarla, Streep, che aveva già cantato per Mike Nichols in Cartoline dall’inferno, per Robert Altman in Radio America e le canzoni degli Abba in Mamma mia!, ha studiato chitarra e scelto cover adatte alla sua voce. Tutti i numeri musicali sono infatti girati live.Simbolo universale di vocazione camaleontica e perfezione tecnica, qui Streep funziona meglio quando rinuncia a dominare completamente la scena. Sono belli i duetti con Kevin Kline (già al suo fianco in La scelta di Sophie); ancora meglio quelli con Springfield che, riservato e cavalleresco, ha due o tre intuizioni molto commoventi verso la fine del film.