Nella quarta giornata di azione globale per Ayotzinapa la rabbia e il dolore di un popolo esausto hanno invaso le strade di Città del Messico con una manifestazione oceanica. Quanto accaduto agli studenti della Scuola Normale Rurale di Ayotzinapa, nello stato del Guerrero, è un fatto noto che sta facendo il giro del mondo. In seguito a una mobilitazione studentesca organizzata nella cittadina di Iguala (Guerrero) il 26 settembre scorso, gli studenti sono stati attaccati brutalmente dalla polizia locale e da elementi del cartello Guerreros Unidos. Negli scontri sei di loro sono stati ammazzati e 43 prelevati con la forza e fatti poi sparire nel nulla. Anche se in una conferenza stampa di un paio di settimane fa il Procuratore Generale della Repubblica ha annunciato la loro morte per mano di sicari di Guerreros Unidos, per le famiglie e buona parte della società civile gli studenti continuano ad essere desaparecidos. La versione ufficiale dei fatti, con cui il governo intende dar per chiuso e risolto il caso, non ha fatto che decuplicare la rabbia e le azioni di solidarietà in Messico e nel mondo.

Per questo 20 novembre, data particolarmente simbolica in quanto anniversario dello scoppio della Rivoluzione messicana, sono state registrate 237 azioni in più di cento città del mondo. Presidi, manifestazioni, eventi davanti alle ambasciate per esigere che i colpevoli del massacro siano condannati e che i 43 normalistas vengano fatti tornare a casa vivi.
Tre i cortei partiti verso le cinque del pomeriggio da diversi punti della città e tutti confluiti nella Piazza della Costituzione (El Zocalo). Alla testa di ogni corteo una delle tre carovane dei famigliari che nell’ultima settimana hanno percorso il nord, il sud e il centro del paese, riunendosi poi a Città del Messico per la mega marcia.

Durante la mattinata un gruppo di circa 600 attivisti e studenti ha cercato di bloccare le vie d’accesso all’areoporto internazionale Benito Juarez. Gli scontri con i 1500 elementi di polizia schierati in assetto antisommossa, non si sono fatti attendere. Artur, uno studente della Universidad Autonoma Metropolitana, racconta che, dopo un duro scontro tra la polizia e un gruppo di manifestanti di area anarchica, i granaderos (polizia antisommossa) hanno accerchiato tutto il corteo, non dando alcuna possibilità di fuga. Grazie all’intervento di una associazione per i diritti umani i dimostranti sono stati poi scortati fino a piazza Tlatelolco, dove hanno raggiunto una delle manifestazioni del pomeriggio. Sedici di loro, tuttavia, sono in stato di arresto.

Nella Piazza delle Tre Culture di Tlatelolco, tristemente famosa per la mattanza di centinaia di studenti il 2 ottobre 1968, il concentramento dello spezzone studentesco è imponente. Un boato accoglie l’arrivo dei pulman dei genitori degli studenti di Ayotzinapa che, scortati dagli attivisti del Fronte Popolare in Difesa della Terra di San Salvador Atenco, si mettono alla testa del corteo. Un gruppo di studenti della Unam (Universidad Nacional Autonoma de México) sfila caricando un enorme Enrique Peña Nieto di cartapesta. Il pupazzo, accompagnato dal grido «assassino! assassino!», verrà poi bruciato simbolicamente verso el sette di sera in una Piazza della Costituzione già gremita per la presenza del corteo partito dal Monumento alla Rivoluzione.

Nel frattempo il terzo corteo, il più imponente di tutti, partito dall’Angelo dell’Indipendenza, sta ancora sfilando per l’interminabile Avenida Reforma occupandola in entrambi i sensi di marcia. Il corteo è capeggiato da un gruppo di studenti normalistas travestiti da poliziotti. Con il volto coperto e scudi della celere alla mano, i ragazzi marciano silenziosi e serissimi. Ne deriva un’immagine agghiacciante che rende perfettamente il clima di violenza, impunità e corruzione ormai endemiche del paese. Seguono i famigliari degli studenti e militanti di diversi organizzazioni sociali dello stato del Guerrero. Anche qui un gruppo di membri del Fronte di Atenco marcia a cavallo brandendo machetes, simbolo delle lotte e della resistenza campesina. «Come Atenco ci solidarizziamo con gli studenti di Ayotzinapa – spiega Adan del Fronte Popolare in Difesa della Terra – ma la cosa più importante è che la gente sta iniziando ad unirsi e protestare. Tutto il popolo messicano si deve organizzare per impedire al governo di comportarsi in questo modo».
La composizione del corteo è varia, non solo associazioni e collettivi, ma anche moltissima gente che si è unita spontaneamente. Anziani, bambini, famiglie marciano sommando la propria voce ai cori che non smettono per un attimo di riecheggiare tra i grattacieli di quella che una delle arterie principali della città. Prima fra tutti la conta da uno a quarantatré seguita dal grido «justicia!».

Verso le sette e venti di sera, quando nel cuore della città viene dato fuoco al manichino del presidente, lo Zocalo E’ già pieno fino all’inverosimile. Mentre dal palco parlano i famigliari delle vittime, segmenti di corteo continuano ad affluire per ancora un paio d’ore.

«Quello che abbiamo visto oggi è l’espressione della forza tremenda che c’è nel movimento, un movimento che si fonda su un obiettivo che non è più solo la restituzione dei 43 desaparecidos ma è ormai anche la stessa caduta del governo», dice Adrian, uno studente della Unam, che invita anche il movimento a darsi una forma «costituente», per rifondare dal basso tutto il paese. Intanto, poco a poco un gruppo di manifestanti inizia a tentare un nuovo assalto al Palazzo Nazionale (come quello già avvenuto l’8 novembre), per il momento sguarnito di polizia. L’azione si fa più dura quando dal portone del palazzo esce un gruppo di granaderos, con i quali viene ingaggiato un duro scontro, con lanci di molotov, sassi, e transenne da una parte e gas lacrimogeni e cariche dall’altra.
È verso le dieci meno un quarto che accade quello che più si temeva, quello che Peña Nieto aveva solennemente annunciato nei giorni precedenti, quando ricordava che lo stato non si sarebbe risparmiato di affermare il proprio monopolio della violenza: la repressione.

La polizia, rafforzata da altri contingenti, ha liberato la piazza, che era ancora piena di decine di migliaia di persone in grande maggioranza pacifiche, con una carica durissima, che in pochissimi minuti ha schiacciato i manifestanti verso l’estremità opposta del Zocalo, chiudendo le vie d’uscita e manganellando indiscriminatezze. Poi, dopo un momento di panico, il grosso del corteo è riuscito a scappare da calle Madero, non senza lasciare sul campo alcuni feriti (tra cui anziani) e una ventina di persone nelle mani delle forze dell’ordine.
Il flusso ha ripiegato cosi verso Bellas Artes, tra lo sgomento e la rabbia, al grido di «governo assassino!».

Il termine della giornata lascia senz’altro grandi interrogativi, sul futuro del movimento come, soprattutto, sulla svolta repressiva che ha voluto dare il governo nella gestione di piazza. A tal riguardo, tuttavia, desta forti preoccupazioni il fatto che la Cndh (Commissione nazionale diritti umani) ha riconosciuto l’intervento della polizia come un’azione di contenimento e non di repressione.