Aveva su per giù – più meno che più – la mia età di ora, 55 anni, quando l’ho vista la prima volta, in fondo al lungo tavolo antico di legno nel suo studio alla Scuola Normale. Paola Barocchi era naturalmente autorevole e fissata in un’iconografia che non sarebbe mutata nei decenni: i capelli raccolti, le gonne scozzesi, un cappotto scuro, una bellezza d’altri tempi. Era l’autunno del 1980. Cominciavo allora l’Università, a Pisa, e di quelle lezioni di Storia della critica d’arte, come si chiamava la sua materia, non avrei capito nulla per mesi: avendo alle spalle le inevitabili semplificazioni del liceo (nonostante le tante contestazioni e le tante sperimentazioni e le tante performances e i tanti cortei), non ritrovavo un filo in quella sequenza di documenti e di testi che ci venivano presentati a lezione – a cui prendevamo parte in pochissimi, direi meno di dieci, intorno al tavolo di noce – per tratteggiare il collezionismo mediceo sullo scorcio del XVI secolo. In quella primavera e in quell’estate infatti la Toscana era stata al centro di una delle ultime esposizioni del Consiglio d’Europa: una schidionata di mostre – solo a Firenze ben nove – dedicate ai Medici del Cinquecento. Tra quella massa di manifestazioni, di livello diverso, spiccava quella di Palazzo Vecchio, organizzata proprio dalla Barocchi con oltre settecento opere esposte, che rivoluzionavano la topografia interna dell’edificio, ricostruendone una stratigrafia storica, che dava valore alle arti congeneri, dalle armi alle pietre dure, dalle porcellane ai cristalli, e proiettava sugli spazi la sua conoscenza, frutto di un corpo a corpo decennale, degli scritti di Vasari. La grandiosità di quella manifestazione – che aveva comportato per prepararla addirittura un allentamento delle lezioni per quasi un anno accademico – era stata percepita anche dal pubblico di massa; ma nel mio ricordo si mescola indelebilmente con lo spettacolo che avevo visto la sera stessa in cui mi ero recato da Milano, dove abitavo allora, a Firenze: Crollo nervoso dei Magazzini Criminali, scene di Alessandro Mendini e framelines di Alighiero Boetti. I neon blu, Brian Eno e le veneziane all’Affratellamento, le statue del salone dei Cinquecento finalmente risistemate a Palazzo Vecchio con la Vittoria di Michelangelo sottratta alla retorica nazionalista, il David Apollo nella camera da letto di Cosimo I… In quella circostanza, nella Firenze di Camarlinghi e Gabbuggiani e con il coordinamento organizzativo della Pina Ragionieri, la Barocchi si era battuta per ritirare dall’esposizione all’esterno la Giuditta di Donatello, ma anche per dare collocazioni più consone agli sfortunati arazzi medicei. E l’elenco dei mille meriti di quella mostra, nel cui catalogo faceva la parte del leone Alessandro Conti poco più che trentenne, non finisce di certo qui.
Ma chi era Paola Barocchi nel 1980? Con la fame dei vent’anni volevo conoscere la storia pregressa di quella professoressa austera, che – di fronte alle mie richieste di un aiuto per sanare l’inadeguatezza che provavo alle sue lezioni – mi aveva suggerito di non preoccuparmi e semmai di leggere Mecenati e pittori di Francis Haskell.
La Signorina si era formata a Firenze, laureandosi con una tesi, tutt’altro che ovvia data l’epoca, sul Rosso Fiorentino, discussa con Mario Salmi. Da lì un libro, uscito nel 1950, recensito benevolmente da Roberto Longhi, che pur ben poco stimava il relatore. Nell’Italia della storia dell’arte divisa dagli steccati tra le scuole, allora molto più di ora, la Barocchi non si lascia incasellare: ma certo le lezioni di Longhi, professore a Firenze dal 1949, ne segnano l’esistenza; il Berenson vecchissimo dei Tatti, conosciuto per tramite della figlia della grande Clotilde Marghieri, è invece per lei solo un «sultano» al centro di una piccola corte. Da Longhi impara, seguendo i corsi sulle fonti caravaggesche, un metodo di lettura dei testi, che confina definitivamente al passato le generalizzazioni della Storia della critica d’arte di Lionello Venturi, ma non accetta di fare parte della redazione di «Paragone». Dentro il reticolo famigliare (orafi e piccola nobiltà della provincia toscana) trova nel cognato Giovanni Nencioni, grande storico della lingua e futuro presidente della Crusca, una sponda, che la porta naturalmente in contatto con Gianfranco Contini: e di qui l’impresa, decennale, dell’edizione affrontata e commentata delle Vite vasariane di Michelangelo del 1550 e del 1568. Cinque volumi di 3000 pagine, stampati da Mardersteig e usciti nel 1962 da Ricciardi, tra i «Documenti di filologia» di Contini: un setaccio senza pari della bibliografia michelangiolesca, dove gli studi eruditi ricevono la stessa attenzione delle pagine militanti di Boccioni o delle divagazioni letterarie (e non solo) di D’Annunzio. Un punto di non ritorno che impone una revisione degli strumenti su cui costruire la storia dell’arte. E tutto questo mentre lei allestisce, negli «Scrittori d’Italia» di Laterza, la collana tanto a lungo vegliata da Benedetto Croce, i tre tomi dei Trattati d’arte del Cinquecento fra Manierismo e Controriforma. Il decennio sperimentale, il più sperimentale – insieme agli anni Dieci – del Novecento, non passa invano: e la Barocchi, che dal 1958 al 1966 insegna a Lecce, accanto a Maria Corti, elabora una forma antologica nuova, tematica, per la letteratura artistica del XVI secolo, i tre volumi degli Scritti d’arte del Cinquecento, che cominciano a comparire nel 1969, dove si agitano, per quanto dissimulati, i fantasmi dello strutturalismo. Quella raccolta monumentale è – chissà se è un caso – l’unico progetto della Barocchi che si percorre a fatica perché sprovvisto di indici. Qualcosa si deve essere incrinato nel frattempo.
L’approdo alla Scuola Normale nel 1967 la catapulta in un contesto solo maschile, che in un breve giro d’anni diventa una riserva di grandi insegnanti in fuga dalle università della contestazione: una raccolta di mostri sacri come non si era vista lì né prima né poi, destinati all’estinzione, visitati ogni tanto da Dionisotti o Momigliano. Il Cinquecento comincia a stare stretto alla Barocchi che avvia una ricognizione su Filippo Baldinucci, che la porta a tratteggiare il cardinal Leopoldo de’ Medici, il maggior membro di quella famiglia nel XVII secolo, secondo un’endiadi tra storiografia artistica e collezionismo, in cui si avverte l’effetto sconvolgente di Haskell, che – nella storia della Barocchi – ha un peso paragonabile solo a quelli di Longhi e di Contini (e, ma limitatamente al fronte michelangiolesco, di Johannes Wilde). Gli anni Settanta del Novecento sono anche quelli, dopo la morte di Longhi, in cui le prospettive più sperimentali sul fronte del metodo e della critica riguardano il XIX secolo, in Italia e all’estero (nel 1986 inaugurerà il Musée d’Orsay, voluto da Michel Laclotte): e la Barocchi è in prima fila, accanto a Sandra Pinto, allieva di Argan, nella reinvenzione di quel tratto della cultura figurativa italiana secondo nuovi parametri di leggibilità e differenti gerarchie di valore, totalmente indenni da condizionamenti commerciali. Oggi purtroppo non si può dire più lo stesso: e le vicende italiane di quel secolo, della seconda metà in particolare, riemergono piccine dalle tante manovre speculative.
Con una capacità visionaria senza pari, la Barocchi avverte – nel pieno degli anni Settanta – che l’informatica muterà i destini della storia dell’arte: e da qui tracciati e schede perforate, ben prima dei personal computer di massa. Il tavolo di Pisa in quel 1980 era ingombro di materiali del genere, di cui faticavo a capire la logica. Eppure alcuni inventari medicei, nelle loro concordanze tra voci scritte e oggetti superstiti, erano già stati trattati informaticamente all’altezza della mostra di Palazzo Vecchio. Quante lezioni su argomenti sconosciuti e peregrini che ci facevano sentire depositari di un sapere, che – non lo sapevamo ancora – anticipava mode storiografiche e ben presto persino cordate accademiche: dalla storia del collezionismo alla ricostruzione delle mostre del passato, come gesti di critica d’arte in atto. Ma anche lì, a ben guardare, agiva il Longhi delle Proposte per una critica d’arte.
Nessuna prevedibilità, nessuna sordità alle nostre curiosità di ventenni, semmai qualche prudenza – dettata dall’età – di fronte alle nostre esaltazioni: quando Ronconi mette in scena, in una notte che non finiva mai, il Fairy Queen di Purcell davanti alla Meridiana di Boboli tra buoi, carri di fieno e mongolfiere e un dispendio senza pari di denaro pubblico, io azzardo un improvvido confronto con Bernini. E lei: «Giovanni, ci vada piano, semmai Buontalenti». In una notte a Venezia, dove eravamo andati per visitare casa Treves con i giganti di Canova, persi in un dedalo di calli, ci recitava a memoria, lasciandoci interdetti e ammirati, le frasi della contessa Serpieri nel Senso di Visconti. Non capiva la ragione delle mie passioni, così pervasive, per Testori e Arbasino; eppure la ricordo ridere, soddisfatta, mentre Mimita Lamberti ci leggeva la civile stroncatura che Arbasino aveva scritto, nel 1982, alla mostra milanese degli anni Trenta. Con Pasolini la questione era un po’ diversa: e basta aprire la Storia moderna dell’arte in Italia, che la Barocchi pubblica da Einaudi a partire dal 1992 (purtroppo un progetto rimasto incompiuto nonostante le premure di Barbara Cinelli), per trovare nelle cronologie selettive in fondo ai volumi – tra ciò che era stato davvero importante per la storia dell’arte – non solo Il Vangelo e Uccellacci e uccellini, ma anche «Il discorso dei capelli» agli esordi della collaborazione del poeta con il Corriere della Sera. Ma a stare a quel diagramma il 1976 era l’anno della morte di Visconti e della retrospettiva di Castellani a Parma e c’era posto persino, data 1969, per la scissione del «Manifesto».
Giudizi così sicuri erano emessi a partire da esperienze provate senza lasciare o quasi le sponde dell’Arno: la vita della Barocchi si è svolta infatti integralmente tra Firenze e Pisa. Un po’ di Roma da ragazza e ai tempi della tesi, un po’ (ma poco direi) di Parigi per il Rosso e il Primaticcio «nella foresta immensa e solitaria» di Fontainebleau, i faticosi su e giù con Lecce negli anni dell’insegnamento. Se non sbaglio, a Londra è stata una volta soltanto, credo dalla mattina alla sera, per le insistenze di Renzo Zorzi: aveva voluto vedere però, prima di recarsi alla Royal Library di Windsor, i marmi del Partenone. Dalla biblioteca di Lungarno Guicciardini, affacciata su ponte Santa Trinita, ha compreso fino in fondo e giudicato, spesso severamente, il tratto di storia che ha vissuto. Al di là del ponte la chiesa con lo stesso nome, frequentata con puntuale regolarità: e proprio una delle poche dichiarazioni di metodo che la Barocchi ha scritto è affidata alla pagina che apre una guida di quell’edificio sacro, una di quelle che si vendono in sagrestia e che forse non approdano neanche nello schedario del Kunsthistorisches Institut. Una radicalità di pensiero così assoluta, unita a una portentosa umanità, si incontrano di rado nella vita. In uno degli ultimi incontri ho notato tra gli scaffali dello studio, dove di solito riceveva, delle automobiline metalliche, direi degli anni Sessanta, con al volante Topolino o Paperino; stavano accanto ai due volumi della Pléiade con gli scritti di Stendhal sulla Francia e sull’Italia, un vecchio regalo di Raffaele Mattioli. Nel chiederle la ragione della presenza di quei giocattoli, mi sono sentito rispondere – senza possibilità di replica – che c’erano sempre stati. Io fino a quel momento, evidentemente, non ero stato in grado di vederli.