Trasformare l’immaginario infantile e l’esperienza quotidiana in opera d’arte: questa è stata la missione di Joseph Cornell per tutta la vita (1903-1972). Troppo facile associarlo al bricolart e alla pop art: in realtà Cornell è rimasto fedele a se stesso, al di là di mode e correnti. Statico al punto da non muoversi mai dall’America, dove era nato e sempre visse, esplorava con la mente o attraverso gli oggetti, di cui era collezionista quasi compulsivo: su questa dialettica tra geografia limitata e viaggi fantastici è costruita la retrospettiva che ora gli dedica la Royal Academy a Londra Joseph Cornell Wanderlust (fino al 27 settembre; catalogo a cura di Sarah Lea, Lynda Roscoe Hartigan e Jasper Sharp, pp. 272, hardback £35, softback £25). Divisa in quattro sezioni – Play & Experiment, Collecting & Classification, Observation & Exploration e Longing & Reverie –, la mostra punta soprattutto a indagare i nessi tra esperienza e forma, da un lato, e quotidianità e creatività, dall’altro lato.
«Che uomo è questo», disse nel 1953 l’artista Robert Motherwell, suo amico, «che, a partire da vecchie fotografie marroni su cartone raccolte in remainders di libri usati, ha ricostruito il Grand Tour europeo dell’Ottocento per l’occhio della sua mente più efficacemente di coloro che lo fecero, lui che a quel tempo non era nato e non è mai uscito dal suo paese, eppure conosce l’aspetto del Vesuvio in una specifica mattina del 1879 e le balconate di ferro battuto di un preciso albergo di Lucerna?». «I wish I hadn’t been so reserved», avrebbe detto invece, leggendariamente, alla sorella al telefono poco prima di morire: «avrei voluto essere meno riservato».
I due miti complementari, ultraromantici, dell’artista chiuso nella sua terra d’origine ed estraneo alle lusinghe della mondanità, innocente e solitario, non rendono giustizia alla complessità della sperimentazione di Cornell, che resta un punto di riferimento per chiunque voglia interrogarsi sulla gestazione dell’opera d’arte: come si fa a trasformare oggetti alla rinfusa, figurine ritagliate, ampolle di vetro, piume di uccello, bolle di sapone e cartoline in bianco e nero, in opera d’arte? La risposta è geometrica: attraverso la forma. Componendo gli oggetti in quadretti strutturati, costringendoli in scatole di vario formato, proiettandone l’ombra sullo sfondo e verificando gli effetti della serialità, Cornell riesce a esplorare la relazione tra il caso e la creazione: il caso non gl’interessa, a differenza di Duchamp e Cage, come strumento di eliminazione della soggettività dell’artista, ma come occasione per esercitare il suo intervento. Di qui le sue due tecniche principali, che la mostra documenta abbondantemente: le shadow boxes, scatole su cui è sovrapposto un vetro di copertura che crea effetti d’ombra e riverbero a seconda dello spessore e della profondità, e il found footage, il montaggio di materiale filmato che viene spostato dall’intenzione originaria a quella imposta. Sistematizzare il casuale, l’accumulato, il riciclato e il rimasto è ciò che fanno i bambini quando giocano e inventano i loro dossier, le loro bacheche, i loro album e le loro collezioni: tutt’altro che ingenuo, Cornell usa il collage e l’assemblaggio per sondare un processo di trasformazione, che è quello che porta il bambino a mettere in ordine il suo mondo e l’artista a dare ordine al mondo.
Ammiratore di Max Ernst e Magritte, ammirato da Duchamp, che lo conobbe nel 1933 e nel 1951 lo considerava «one of the best American artists of today», e forse persino invidiato da Dalì, che alla proiezione del suo found footage più famoso, Rose Hobart, nel 1936, avrebbe esclamato che Cornell gli aveva rubato l’idea dalla mente, in seguito associato a De Kooning, che magnificava l’architettura delle scatole di uccelli, e a Rothko, che celebrava l’«inusuale magia» degli oggetti da lui creati, difficilmente Cornell può essere considerato un formalista: eppure la sua risposta a chi ha voluto incasellarlo di volta in volta nel surrealismo, nell’Abstract Expressionism o nel minimalismo andrà cercata in quell’appunto dei suoi diari che è una vera dichiarazione di poetica: «the prospect of cluttered cellar – / creative filing / creative arranging / as poetics / as technique / as joyous creation».
Una cantina disordinata da mettere in ordine: questa è la sua resistenza al tempo e alla corruzione, la sua forma di opposizione alla morte. Come il bambino evita che l’esperienza scivoli, per ritenerla e darle senso, così Cornell impregna di nostalgia, decadenza e perdita i suoi collage e archivi: per dare una struttura al caos della vita e del mondo, come volevano i classicisti. Non si trattava allora di ricorrere a oggetti rifiutati, scartati o abbandonati, come facevano, ad esempio, in modi e forme diversi, Kurt Schwitters, Picasso o Manzoni, ma di recuperare frammenti di ciò che un tempo era stato bello e continua magicamente a portare con sé la sua bellezza. Convinto seguace del cristianesimo scientista, Cornell provava a ritrovare l’anima al di là della cosa, nel tentativo di valorizzare quelle strutture profonde dell’essere che ci avvicinano al momento della creazione prima, che l’artista a sua volta punta a ripercorrere a ritroso con le sue creazioni ultime. Le quattro Medici Slot Machine, boxes in mostra, trasformano ritratti del Pinturicchio, del Bronzino e dell’Anguissola in nicchie o altarini contemporanei, nei quali l’evocazione del passato, col prestigio che porta con sé, si unisce al senso di morte e di perdita che il passato sempre contiene, insieme a un anelito di perfezione dovuto alle geometrie naturali che legano passato e presente in una metafisica della durata e dell’assolutezza: alchimista enigmatico, Cornell cerca corrispondenze nascoste, intrecci imprevisti, tassonomie gnostiche e metamorfosi mistiche. Derisione del culto delle reliquie e ambizione alla permanenza dell’origine si combinano e intrecciano in queste scatole che sono insieme casa e prigione, raccolta e scomparsa, raccoglimento e distacco.
Infantile e razionale, naturalista e scientista, cabalista e illuminista, Cornell sfugge a tutte le categorie che più amiamo per classificare e normalizzare perché ha scelto fin dall’inizio lo strumento espressivo che più ha bisogno di forma per realizzarsi: il collage, che trova tutto il suo senso nella dispositio, che diventa insieme invenzione e interpretazione. Il molteplice viene condotto a unità, ma conserva la pluralità originaria, trasformando e conservando insieme, come in una danza da vedere in sequenza, ma anche nei suoi singoli fotogrammi, gioco di continuità nel movimento e cattura nello scatto. Materia e metafora sono la stessa cosa: la sabbia rimanda alla riva del mare, per un processo associativo, ma anche all’infinito, perché non ha forma fissa. Dare forma alla sabbia è sempre stata la sua ricerca. Perciò Cornell era innamorato del vitalismo femminile e spaventato dal rapporto erotico: mai sposato e sempre a casa con la madre, eppure affascinato, come artista e come uomo, da grandi ballerine che l’ispirarono, come Tamara Toumanova e Tilly Losch, o fascinose prime donne che lo mettevano in crisi, come la musa della moda Lee Miller, la poetessa Marianne Moore e l’autorità intellettuale indiscussa di Susan Sontag, o artiste parallele che lo facevano sentire meno solo, come Yayoi Kusama. Un mondo di relazioni da controllare, ma sempre pieno di inquietudini e tensioni sotterranee al di là della sistemazione e classificazione esteriori.
La mostra riesce benissimo in questo duplice obiettivo: dispiegare l’universo-Cornell e farlo fruire con sguardo incantato. Chi vorrà contemplarlo, si limiterà a guardarlo da fuori, tra complice e perplesso: irrimediabilmente kitsch e drammaticamente avanguardista; chi vorrà aprirlo, smontarlo nei meccanismi costitutivi e svelarne gli arcani, potrà analizzare, scomporre e ricomporre, decostruire e discutere. Come con la sua Pagoda, il racconto-architettura che contiene la storia della bambina Berenice, che volle una pagoda costruita in America: una pagoda fatta di parole, che contengono tutto l’immaginario della bambina, una Wunderkammer senza senso apparente eppure anche una grammatica ragionata del mondo. L’architettura contiene il mondo, dandogli forma, ma lo può anche sprigionare, il mondo, perché vada alla ricerca di altre forme.