Non è ancora un anno che parliamo di David Bowie al passato e già si profila la prima salva postuma di uscite discografiche e teatrali, a ricordarci quanto più povero sia oggi il mondo dei molti che lo amano visceralmente. Lazarus, il musical al quale lavorava fino a poco prima della fine, trasloca da off-Broadway per aprire al Kings Cross Theatre di Londra (fino al 22 gennaio, vedi recensione sotto), preceduto dal relativo Lazarus Cast Album, che ne contiene la musica: alcuni dei classici senza tempo più tre brani inediti, gli ultimi.

Un ritorno a casa postumo per il figlio di Brixton. Nella sua città, che come lui non ha mai cessato di evolversi, cambiare, moltiplicarsi, accogliere e respingere. Bowie avrebbe lasciato Londra definitivamente nel ’74 per poi preferirle complessivamente New York, un posto relativamente immune a manifestazioni di fandom esagerata. La capitale ha lasciato un segno indelebile nel primo Bowie – alla bisogna così sfacciatamente folk, Mod, psichedelico, hippy – come nel Bowie maturo, «americano». South London, che ha dato i natali a tanti londinesi illustri, tra cui Charlie Chaplin e John Ruskin, separata dal resto dal Tamigi e da un semiserio golfo linguistico e culturale; ma anche, e soprattutto, l’ex dissoluta Soho.

La vicenda terrena  di David Jones parte nel 1947 da Brixton, quartiere popolare del borough di Lambeth ancora derelitto per le bombe tedesche. Che negli anni Venti era sinonimo di shopping elegante, negli anni Cinquanta meta dell’immigrazione coloniale di ritorno dai Caraibi e negli anni Ottanta, dopo la fuga del nostro a Los Angeles, avrebbe conosciuto i riots. I suoi abitavano a 40 Stansfield Road, al confine con Stockwell. Come Shoreditch, Bethnal Green, Broadway Market ad est, Peckham a sudest, oggi Brixton è oggetto di una gentrificazione implacabile e pervasiva: i prezzi sono saliti forse più che nella vecchia East End, e sta subendo una vera e propria pulizia sociale. I vecchi caffè e negozi sono rimpiazzati con franchising dalla patina alter-nazionale, tutti serialmente «di carattere» e spesso consunti ad arte. Non così l’ancora semidistrutta Brixton dei primi Cinquanta, se i Jones si spostarono – David ancora un ragazzino – nella più spaziosa, benché altrettanto noiosa, suburbia: a Bromley, nel Kent. Questa parte di South East London costituirà la base da cui Bowie nella seconda metà degli anni Sessanta avrebbe intrapreso i primi arrembaggi alla fama, tutti falliti con almeno tre band presto disciolte, i Kon-Rads da adolescente, i King Bees, e i Lower Third. Da qui il nostro, di origine working class – la madre, di origine irlandese, faceva la cameriera, il padre, dello Yorkshire, lavorava presso un ente benefico –, avrebbe iniziato le prime sortite nel cuore pulsante dell’industria musicale. In posti come Denmark Street, Soho: la Tin Pan Alley londinese, sede del Nme e del Melody Maker, ritrovo abituale di Rolling Stones e Sex Pistols, e oggi avviluppata dal cemento, vetro e acciaio dell’immensa Crossrail, l’estensione da ovest a est della metropolitana in via di compimento che ha fatto vittime illustri come il Metro, l’Astoria e l’Astoria 2. Nulla ha potuto la protesta da parte di piccoli comitati per la salvaguardia del patrimonio culturale della capitale contro la riqualifica commerciale dell’area: molti luoghi musicali storici, tra cui il 12 Bar, meta di giovani delle più varie subculture, punk, rockabilly, metallari e oggi hipster, sono stati cancellati.

Qui, dal ’63, un Bowie ancora in cerca della propria voce bazzicava il La Gioconda, il caffè al numero nove preferito dal music business assieme a Marc Bolan, davanti al quale avrebbe lasciato l’ex ambulanza che usava come tour van con i Lower Third parcheggiata per settimane. Subito dopo c’è il venerabile negozio di strumenti Rose Morris, dove lavorò brevemente, e a qualche minuto di distanza a piedi Charing Cross Road, la strada dei vecchi librai e nella cui stazione ferroviaria Bowie incontrò Vince Taylor, bizzarro rocker fonte d’ispirazione per Ziggy Stardust (gli diede una mappa della Gran Bretagna dove sarebbero dovuti atterrare gli Ufo).

LA parte interna di Soho, anch’essa in piena bonifica edilizia che sta soppiantando le vecchie alcove a luci rosse, ha perduto il Marquee Club di Wardour Street, altra gloriosa live venue dove Bowie si sarebbe esibito molte volte dal 1965. Al 116 c’è ancora il pub edoardiano The Ship, dove nel 1967, dopo l’infelice riuscita del suo primo album, annunciò che avrebbe abbandonato la musica per diventare monaco buddista. La vecchia patina della Soho-zona-franca-della-mal-tollerata-devianza era allora più vivida che mai: lo showbusiness, gli artisti e la malavita organizzata londinese, si mescolavano amabilmente nei suoi fumosi club e locali. Come il Charlie Chester’s Casino al 12 di Archer Street, oggi un ristorante italiano dove Bowie e i suoi s’imbattevano nei famigerati gemelli Kray, i padroni dell’East End.

Nel frattempo Bowie in piena fase Mod si era trasferito più a Ovest, al 20 di Manchester Square a casa del manager di allora, Kenneth Pitt, dove avrebbe scritto il suo primo, diseguale omonimo album da solista. Lì si sarebbe sottoposto a una dieta di Oscar Wilde, Aubrey Beardsley e Velvet Underground, avrebbe fatto ripetute visite agli antichi maestri della Wallace Collection e all’allora sede del Toy Museum, esperienza che ha lasciato sul disco la sua impronta d’immaginario infantile.
Soho e Regent Street restavano tuttavia per lui luoghi quotidiani. Nella piccola traversa di Heddon Street furono scattate le foto dell’artwork di Ziggy, nel Café Royal al 68 di Regent Street c’è l’albergo del party dopo il concerto finale degli Spiders from Mars, indelicatamente informati del proprio licenziamento da Bowie alla fine di quella memorabile serata del 1973 all’Hammersmith Apollo. L’anno dopo sarebbe partito per Los Angeles.

Un ciclo si era chiuso per lo spirito proteiforme dell’irrequieto David. Che torna oggi nel cuore per sempre mutato della sua città per offrire l’ultima scintilla di un genio spentosi mentre rinasceva.