Chi apre il sito di Michael Palm, autore del documentario Cinema Futures presentato ieri in prima assoluta a Venezia 73 nella sezione Venice Classics, trova subito le tre parole chiave del suo cinema: film / sound / theory. Classe 1965, Palm si autodefinisce filmmaker, teorico del cinema, editor, compositore di musiche e sound designer. L’ampia gamma di conoscenze nell’ambito del fare e del pensare il cinema, sta alla base del suo nuovo film. Prodotto in occasione dei 50 anni dell’Österreichisches Filmmuseum (infatti il direttore, Alexander Horvath, appare come co-produttore della Mischief Film, mentre sixpack, agenzia del cinema sperimentale, è distributore internazionale), Cinema Futures narra presente e futuro del cinema nell’era digitale. Singoli episodi e aforismi cinematografici aiutano a rappresentare scenari futuristici, dove coesistono i timori di perdere una cultura e le promettenti utopie. Filo rosso attraverso il passaggio epocale dai cento e più anni di storia del cinema in pellicola, a immagini in pixel digitali, immateriali, nella nostra era di grande accelerazione temporale, è l’amore per il grande cinema. Passione pura, senza alcuna nostalgia. Tra coloro che passano il testimone, ci sono Martin Scorsese, Christopher Nolan, Apichatpong Weerasethakul, dal campo del fare cinema, accanto a Paolo Cherchi Usai e Nicole Brenez, dal campo teorico-critico-storico, per nominarne alcuni. Per saperne di più, ho telefonato a Michael Palm, a Vienna, dove vive e lavora.

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La citazione iniziale dice: Il futuro è un passato non ancora scritto. Di chi è, e cosa intende dire? 

La frase è di Bruce Sterling, autore ideatore del cyberpunk, e la uso come chiave di accesso al tema ampio qual è il futuro del cinema ma in modo tutt’altro che futuristico. Mi spiego: nel corso delle ricerche, alla domanda di come sarà il cinema fra venti o trent’anni, i cosiddetti futurologi non hanno citato cose strabilianti ma parlavano piuttosto di un futuro già presente: pubblico seduto in una sale dove le immagini arrivano via satellite, possibilità di guardare film su diverse piattaforme, chi al computer, chi su tablet o smartphone. Di fronte a una simile impossibilità di catapultarsi dentro scenari davvero futuristici a partire da questo presente, che già c’è, ho deciso di volgere lo sguardo indietro: verso il passato. D’altronde, esistono sempre più archivi, sia istituzionalizzati (i vari musei, film house o fondazioni) sia privati, che a volte custodiscono persino tesori poco noti.

Oggi il digitale regna un po’ ovunque, nel film si accenna a come si è concretizzata questa frattura tecnologica?

Il trapasso è avvenuto nel giro di pochissimi anni, col focus sempre puntato sull’ambito economico: migliore qualità, meno dispendio per produzione e distribuzione. Sorge la domanda: che cosa si perde però? A mio avviso, si tratta di due medium assolutamente differenti, cinema in pellicola e cinema digitale, per cui andrebbero indagate similitudini, diseguaglianze e/o differenze, benché i più sostengono che non ce ne sono. Supponiamo però che i grandi studios e l’intera industria cinematografica classica, cioè Kodak, Fuji e Agfa, i maggiori produttori di pellicole e della chimica necessaria per sviluppo e stampa, debbano chiudere. Che cosa accade negli archivi, una volta che i materiali base si fanno obsoleti o persino non vengono più prodotti né messi sul mercato? Per tornare alla citazione di Sterling, essa sta esattamente per circoscrivere questa situazione complessa e di ampio raggio, nel senso che il passato è custodito in forma precaria, grezza, ignota, perché non sappiamo che cosa si nasconde davvero all’interno delle tante scatole di latta stoccate sugli scaffali dei depositi nei vari musei del cinema in giro per il mondo. Rivedere per esempio, oggi, un film del 1918 o anche soltanto del 1950 significa guardarlo alla luce del sapere e delle abitudini di visione dell’oggi, per cui cambia la percezione rispetto all’opera vista forse dalla stessa persona una ventina d’anni prima. Di qui nasce un grosso potenziale utopico! Ma cosa accade con la memoria, con i ricordi, se la stessa base materiale cambia? O sparisce? Che cosa accade alla memoria audio-visiva? Ripeto, secondo me, finora l’evoluzione tecnologica è stata considerata unicamente dal punto di vista economico, e a questo punto vorrei citare Benjamin: «Chi non ha passato non ha futuro, perché vive costantemente nel presente».

Descrive bene la condizione attuale della nostra società…

Certo, mi chiedo però anche: che cosa si rende possibile, se andiamo a riscrivere la storia? In modo nuovo? Interessandoci a ciò che ancora non è accaduto? Se guardiamo bene, regna un po’ ovunque anche il pensiero unico, non esistono una contro-storia, né altri o persino nuovi punti di vista. Per fare un esempio parallelo: l’industria della carta. Se un domani non si produce più carta, non si possono più stampare libri. Che cosa accade dunque alle forme tecnocratiche? Bisogna iniziare a differenziare, già oggi molti testi girano solo in ebook, e tornando al cinema, dico che, secondo me, la vera evoluzione futuristica del narrare storie per immagini sta nei videogiochi, seguiti e creati sempre di più dagli stessi teenager. Al cinema non si è mai ottenuto questo tipo di interattività totale, benché ci abbiano provato in vari modi, dunque avendo altri pregi, curiamoli. Purtroppo, si rischia subito di essere malintesi, per cui spesso vengo tacciato come un retrò, poco aperto al nuovo, quando di fatto è dal 1990 che uso il computer, anche per svolgere il mio lavoro nel campo di teoria e pratica cinematografiche. Non sono contro le nuove tecnologie, anzi, ma sono convinto che la tecnologia digitale è un altro medium.
Anche Peter Kubelka, il grande maestro del cinema d’avanguardia non solo austriaco, afferma questo.
Kubelka è un caso a parte, avendo lui fondato il suo principio estetico-stilistico a partire dal materiale base, cioè la pellicola, per cui difende a spada tratta la proiezione classica col proiettore dove scorre la pellicola. Lui la sua arte l’ha costruita sulla messinscena delle caratteristiche del materiale usato: dai fotogrammi alla velocità di scorrimento, dal bianco e nero al colore, da immagini astratte a immagini realistiche, ecc. Qui vedo subito un pericolo: il dogma. Chi giura e spergiura sulla pellicola, attribuisce a quel mondo di forme e caratteristiche storiche un valore che non ha. Sappiamo tutti che i film degli anni novanta erano ben diversi da quelli degli anni quaranta, così come lo era la modalità di fruizione: allora i teenager erano seduti nelle loro macchine al Drive In, mentre per esempio negli anni settanta la visione di un film era simile alla celebrazione di un atto sacro all’interno delle sale considerate dei luoghi di culto.

Lei dunque non professa né l’uno né l’altro? 

Il mio intento non era difendere un’ontologia del cinema, quanto ideare un catalogo per indicare che cosa ascrivere all’uno o all’altro dei due medium. Ad esempio, il processo di decadimento e invecchiamento è molto differente. In che modo? Il cinema è da sempre immagine virtuale, e va ricordato che del primo periodo di produzione, tra il 1845 e il 1925, quasi il 70/80% era andato perduto, sparito o bruciato. D’altra parte regna la leggenda che la pellicola è più durevole, nulla di più falso: non è come una lastra di marmo o di granito, piuttosto è un supporto fragile che facilmente subisce graffi, rotture, alterazioni nei colori, o la famosa sindrome dell’aceto. Nel digitale l’immagine è sempre perfetta, nitida, sin troppo, non invecchia ma o si vede o non si vede, nel senso che può dissolversi in migliaia di pixel o scomparire dietro barre nere. Un film digitale può essere visto e rivisto e rivisto, e ogni volta lo sguardo sarà diverso, nuovo…

Uno dei tanti giochi speculari mostra il maestro Yoda della saga Guerre stellari, cioè l’enorme statua nera è messa a confronto con quella che rappresenta Muybridge, che per primo aveva sperimentato la cronofotografia per vincere la famosa scommessa sul fatto se il cavallo mentre corre solleva o no tutte e quattro le zampe da terra.

Entrambe le statue si trovano nell’area della Lucasfilm a San Francisco, e le ho inserite nel film perché avevo osservato che Yoda era molto fotografato mentre Muybridge non lo guardava nessuno, benché fosse descritto come Father of Cinema, accreditandogli seguendo la logica pop la paternità del cinema, per conferirgli questo posto d’onore accanto al padre fondatore degli Jedi, i cavalieri della luce. Mi sembra un po’ assurdo creare un «padre del cinema», la settima arte non ha genitori. Ciò fa parte di una logica che vuole fondare tutto sulla logica della famiglia. Ma alla fine i conti non tornano, e per ironia della sorte nessuno conosce questo altro padre per cui nessuno guarda questa statua, tanto meno si scattano selfies lì davanti! L’ho trovato però un bell’esempio per allegorizzare uno tra gli importanti propositori del cinema digitale, George Lucas…

I paradossi della storia?

Nel film ho scelto uno stile di narrazione per allegorie, confronti, contrapposizioni, contrappunti, scene speculari e rispecchiamenti, proprio per stare alla larga da ogni rimando a uno statico deposito, un Lager (in tedesco il deposito delle pellicole si chiama Filmlager o semplicemente Lager, che vuol dire «deposito» appunto, nda). Non volevo parlare di pura conservazione, ma alludere, richiamandoli e sottolineandoli, i punti di rottura, le linee di frattura, i paradossi reciproci, per l’appunto. Non m’interessava montare le interviste di per sé, ne sarebbe risultata una sfilata di mezzibusti parlanti, una cosiddetta «parata di dogmi».

Un paradogma invece del paradigma che ha costruito… Ma torniamo un attimo a Yoda, perché si parla anche della minaccia oscura, e forse non solo per citare l’altra componente di personaggi della famosa saga cinematografica. Si allude al digitale che avanza?

È un semplice richiamo a modi e forme in cui per tanto tempo le nuove tecnologie sono state rappresentate nei film di science fiction: come minaccia oscura sotto forma di esseri oscuri che vogliono imperare nel mondo.

Nella parte iniziale vediamo una foto in bianco e nero che mostra alcune persone attorno a un bidone con in mano delle scatole di latta del tipo che contenevano le pellicola. A cosa si riferisce?

Lo scatto fu fatto a New York, e accompagnò un articolo di giornale apparso sul New York Times nel 1999. Durante le mie ricerche l’ho trovato online, ma senza la foto. Questa l’ho poi scovata nel libro di Cherchi Usai, The Death of Cinema, ma interrogato sulla provenienza nemmeno lo studioso italiano sapeva darmi più informazioni. Nessuno sa di preciso che cosa documenta, si suppone una presentazione di tecnologie digitali per la cui pubblicizzazione era stata creata questa messinscena.

Che mi fa pensare alle foto scattate nei safari nel film omonimo di Ulrich Seidl…

Già, è vero! L’ho trovata una foto divertente. Infatti, erano umorismo e senso ironico a guidarmi nel montaggio onde evitare che si facesse un documentario noioso e troppo specialistico per soli addetti ai lavori o per un pubblico di nerds. Volevo fare un film «per tutti», avvicinare tema e approccio stilistico a un livello sociale da toccare tutti, ossia tutti coloro che hanno a che fare con informazioni digitali di ogni tipo. Per riuscire a trasmettere a chi lo guarda la consapevolezza della differenza esistente tra i media, analogici e digitali, in una sorta di alfabetizzazione che vuole spiegare il perché è importante la sopravvivenza: ad esempio gli ormai tanto amati dvd in blu ray sono il risultato finale di un lungo processo di lavorazione complessa, sul piano tecnico e tecnologico, e non un elemento di partenza. Ci sono molti musei del cinema che curano proiezioni adeguate, tecnicamente parlando, al medium usato e continueranno a farlo sempre di più, mentre al contempo sono stati investiti della responsabilità della loro corretta conservazione. Oggi non è più possibile girare come un tempo nemmeno tanto lontano con la pellicola sotto braccio, recarsi in una sala e farla proiettare. Ormai (quasi) tutte le sale sono digitalizzate, però esistono anche infrastrutture parallele adeguate che vanno, appunto, mantenute. Proprio per impedire che il processo lavorativo venga occultato, come accade in tanti altri settori per altro. Ecco perché è importante girare lo sguardo e mettere a fuoco esattamente questo: il processo di creazione, produzione, fabbricazione.