Una decina di lungometraggi, altrettanti cortometraggi, oltre 80 video musicali e circa 30 spot pubblicitari, queste sono le cifre dell’attività ultraventicinquennale di uno dei più interessanti e celebrati creatori di immagini in movimento del mondo: Michel Gondry. Schivo, timido ma geniale, il classico bravo ragazzo di ormai 50 anni che vive tra Parigi e New York senza concedersi mai una pausa, Gondry ha firmato forse un solo capolavoro per il grande schermo, quell’Eternal Sunshine of Spotless Mind (2004), uscito in Italia con il titolo Se mi lasci ti cancello che, tuttavia, resta un film epocale, una sofisticata riflessione sul rapporto tra esistenza umana, funzionamento del cervello e narrazione (meta)filmica, pienamente in linea con quella tendenza al “neurocinema” che dagli anni ’90 sta caratterizzando la scena audiovisiva.

Per un film – sceneggiato da Charlie Kaufman – ritenuto ormai di “culto”, vi sono decine e decine di videoclip divenuti pietre miliari del genere. E’ attraverso questi lavori di pochi minuti che si è andata gradualmente codificando l’estetica di Gondry, replicata poi da numerosi epigoni. Per quanto surreale e anarchico, il mondo del cineasta francese è in realtà regolato da meccanismi di assoluta precisione, da una messa in scena armonica, simmetrica, speculare, palindromica (Sugar Water, realizzato nel 1993 per i Cibo Matto è, appunto, un videoclip-palindromo, forse il suo lavoro più originale in assoluto) che seduce e sorprende lo spettatore.

Il modo ritmico di comporre immagini e assemblarle in sequenze, denunciano la formazione musicale di Gondry, che nasce come batterista del gruppo parigino degli Oui Oui alla fine degli anni ’80. Per Gondry ogni nota, tonalità, registro, strumento corrisponde a un equivalente elemento visivo, in una sorta di orchestrazione che si rifà all’epoca della sperimentazione pre-cinematografica, alla musica cromatica di uno Skrjabin o dei fratelli Ginna e Corra, alle ricerche su ritmo, forma e colore di Kandinsky e Schonberg. Non a caso il clip cui rimane più legato in assoluto – nonché il più artigianale, fatto in casa con il contributo dei suoi familiari – è Around the World (1997) per i Daft Punk. In una scenografia costituita da un fondo optical di cerchi colorati che si illuminano a intermittenza, su una pedana rossa con due scalinate laterali salgono e scendono oltre una ventina di performer: alcuni travestiti da scheletri, altri da mummie, altri da robot e infine fanciulle in costume da bagno, corrispondenti in una logica di perfetta sincronizzazione audiovisiva alle chitarre, alle percussioni, alle voci metalliche e ai sintetizzatori. Tutti inscenano un balletto-girotondo (“intorno al mondo”, appunto, è il titolo del brano) al ritmo della musica elettrofunky, come se fossero in un coloratissimo show televisivo, dove l’iconografia della vita si mescola a quella della morte. Un altro suo lavoro strutturato sull’equivalenza suono/segno è invece Star Guitar (2002), realizzato insieme a suo fratello Olivier per i Chemical Brothers: il paesaggio osservato dal finestrino di un treno, ripete ossessivamente silos, edifici, cartelloni, vagoni, ecc. A parte poche presenze umane, il resto sono elementi architettonici replicati idealmente all’infinito nella continuità dello spazio.

I continui giochi ottici e prospettici (Protection, Let Forever Be), l’attrazione per le complesse e oniriche strutture a scatole cinesi scenografiche e narrative (Bachelorette, Everlong), la mescolanza di tecniche di animazione e immagini dal vero (Hardest Button to Button, Isobel), il passaggio da clip che si basano ostinatamente su dispositivi artigianali a video musicali che fanno invece uso di sofisticate tecniche di compositing, l’uso frequente del piano-sequenza reale o simulato (Come Into my World, Lucas with the Lid Off), il fiabesco che si tinge di atmosfere inquietanti e orrifiche (Fire on Babylon, Human Behavior), tutto ciò e molto altro fanno di Gondry l’erede di Escher e di Méliès, il cineasta-giocattolaio, anzi giocoliere, l’acrobata audiovisivo che ha saputo innovare da vent’anni a questa parte il mondo delle immagini in movimento, guardando al passato (al pre-cinema, al cinema come luna park, a un catalogo di trucchi e fantasmagorie) e al futuro (il cinema come superamento di qualsiasi narrazione e come arte in cui fondere tutti i linguaggi espressivi possibili e inimmaginabili, nella prospettiva di una gesamtkunstwerk digitale dall’anima analogica).

Qualche mese fa, ospite di Vanessa Tonnini e del festival del cinema francese Rendez-Vous da lei curato, abbiamo avuto modo di incrociare a Roma Gondry, a lungo inseguito per convincerlo a realizzare una mostra dei suoi lavori – rimandata a non si sa quando, per via dei suoi numerosi impegni. Tra una masterclass alla Casa del Cinema e una conversazione fugace al Caffè della Pace, siamo riusciti a mettere faticosamente insieme i frammenti del Gondry-pensiero.

L’ARTE DEL SOGNO E DELL’EQUIVOCO

Conversazione con Michel Gondry

A quando risale l’amore per l’animazione?

Ho amato sempre molto l’animazione e ho cominciato a fare delle prove utilizzando i flip book. L’ispirazione nasce dalla vita vissuta, dai miei sogni e da tutte le cose che non ho potuto realizzare nella vita e che invece posso realizzare nei sogni. Ho trovato gli strumenti per realizzare i desideri che nascevano dalle cose viste da bambino. Mi sono sempre piaciuti i film di animazione della Cecoslovacchia, quindi fatti con pupazzi animati, come ad esempio Pojar o Jan Svankmajer, anche perché capivo come erano fabbricati e mi veniva voglia di rifarli. Ma sono stato influenzato molto anche da un film come il Pinocchio di Comencini. Ricordo la sequenza del legno che si rompe e si sente un urlo. Il legno che gridava mi è sempre sembrato magico, più magico anche del Pinocchio disneyano.

Hai nominato Svankmajer, chi sono gli altri tuoi animatori preferiti, quelli che ti hanno ispirato?

Norman McLaren, Alexeieff, Fischinger, tutti autori che hanno inventato cose molto prima che esistessero i computer. Quando si guardano i film di Fischinger si ha veramente la sensazione di vedere stili di immagine che hanno ispirato quelle generate dal computer.

I tuoi lavori mi ricordano molto anche quelli di Zbigniew Rybczynski…

Si, certo, adoro Rybczynski. Una volta l’ho incontrato a un festival e gli ho confessato di aver rubato dal suo Tango l’idea di un videoclip girato per la Minogue, Come into my world.

Si, me lo aveva raccontato anche Zbig questo episodio, anche se non direi proprio che hai “rubato” qualcosa, le due opere sono molto diverse ma entrambe assolutamente geniali. Come nasce solitamente l’idea di partenza?

L’idea iniziale può essere visiva, narrativa, perfino geometrica. A me piace fare ogni volta un’esperienza diversa. Ho girato circa un centinaio di video e ho provato sempre ad avere un’idea nuova, differente da quelle usate in precedenza.

Esattamente come gli autori che hai citato prima, sono famosi nella storia del cinema sperimentale e/o di animazione perché hanno inventato o innovato decine di tecniche e procedimenti, cercando di non ripetersi ma di sorprendere sempre lo spettatore. Mi racconti il tuo modo di lavorare a un video musicale?

Cerco di comprendere quello che il musicista vuole esprimere nella sua canzone, provando a renderlo attraverso le immagini. Quando non c’è una storia che si evince dal testo musicale, tento di costruire una narrazione sempre rispettando i sentimenti che trapelano della canzone. Per me però è importante rispettare la mia idea di partenza senza mai declinare troppo da questa idea originaria.

E i musicisti solitamente ti lasciano libero?

Ci sono artisti come Bjork che hanno molte idee e quindi provo a fondere le loro con le mie e portarle fino in fondo. Altri nvece non hanno richieste precise: per esempio gli White Stripes. Quando ho girato per loro Fell in Love with a Girl mi hanno dato fiducia totale (e pensare che mi avevano chiamato convinti che fossi io l’autore del video Are You Gonna Go My Way di Lenny Kravitz, che invece è stato diretto da Romanek). Per convincerli che potevo realizzare il clip interamente col Lego, ho creato la testa di Jack con i mattoncini. Alla fine sono riuscito a convincerli della mia idea, cioè animare solo il Lego senza sequenze di playback, con loro due che suonano filmati dal vero.

I tuoi videoclip sono estremamente complessi e spesso coniugano trucchi artigianali ed effetti digitali. E’ difficile far accettare il tuo immaginario basato su livelli narrativi molteplici, illusioni ottiche o, meglio, equivoci visuali, ecc.

Ho iniziato fare i videoclip per la band musicale in cui suonavo la batteria, gli Oui Oui, anche se nessuno accettava quei lavori, avevano paura di ritrovarsi in un universo troppo bizzarro. La prima ad aver compreso e amato il mio universo è stata Bjork e solo dopo ho avuto modo di realizzare altre cose così come le volevo io. Tutte le mie idee erano rifiutate all’inizio, ma io me le appuntavo su un quaderno per poi riutilizzarle in altre occasioni. Dunque spesso molti spunti sono legati a certe canzoni e, dunque, a certi contesti, anche se io li ho poi applicati ad altri contesti. Gli inizi non sono stati facili, soprattutto perché avevo difficoltà a spiegare cosa avevo in mente. Ricordo la prima volta che sono andato in Inghilterra per dirigere un clip: la band non capiva – anche per problemi di lingua – cosa gli dicevo, così sono tornato a casa e ho creato una maquette di cartoncino. Nel caso di Deadweight, che ho girato per Beck, ho dovuto realizzare un piccolo film interpretando personalmente il ruolo che lui avrebbe poi dovuto fare, in modo da chiarificargli le mie intenzioni.

Quando hai deciso di passare al lungometraggio a soggetto?

Avevo girato Isobel per Bjork e per la prima volta ho visto un mio lavoro proiettato in una sala cinematografica, su un grande schermo. In quel momento allora ho capito che avrei avuto voglia di fare un film per il cinema. Il mio primo progetto era La Science des reves [L’arte del sogno], anche se non mi sentivo ancora pronto a dirigerlo e allora l’ho accantonato per realizzare Human Nature ed Eternal Sunshine of the Spotless Mind [Se mi lasci ti cancello], scritti insieme a Charlie Kaufman.

Mi parli del sodalizio con Kaufman?

Charlie Kaufmann e io avevamo iniziato a collaborare su Eternal Sunshine…, ma ci voleva troppo tempo per realizzarlo e intanto gli ho proposto di fare prima Human Nature, ciò mi ha permesso di imparare molte cose applicate poi su Eternal Sunshine. L’idea di questo film mi è venuta perché avevo un amico che si occupava di arte contemporanea il quale desiderava cancellare una persona dalla propria memoria. All’inizio ho scritto un soggetto di due pagine, l’idea di una storia di qualcuno che si accorge che la sua ragazza l’ha cancellato e dunque lui decide di fare la stessa cosa. Poi ho coinvolto Kaufman che ha accettato a lavorare con me. Ho tentato di spingerlo ad essere più romantico, poiché lui ha un’attitudine molto anti-hollywoodiana, un riflesso condizionato grazie al quale associa il concetto di “romantico” con quello di “commerciale”, quindi ho tentato di controbilanciarlo e di essere più sentimentale.

Ci sono differenze per te nel lavorare per la videomusica anziché per il cinema?

Nei film come nei video musicali per me la condizione indispensabile è arrivare fino in fondo rispetto a ciò che io ho in mente di fare; vale a dire mantenere tutte le promesse. Quando scrivo il soggetto di un film o di un clip progetto sempre di più di quello che sono realmente in grado di fare, ma quando passo alla fase produttiva riesco a fare sempre un po’ di più di quello che credevo inizialmente di poter realizzare. Quindi, a conti fatti, vado in pari.

Immagino che per visualizzare le tue idee tu faccia diversi schizzi, disegni, storyboard…

Realizzo parecchi disegni che implicano elementi di piani differenti e coinvolgono collaboratori di settori diversi, tuttavia cerco di non fare troppi storyboard per non imprigionare eccessivamente gli attori, lasciando loro la libertà di improvvisare. Certo, amalgamare gli interpreti con i dispositivi tecnologici non è semplice, diciamo che è una questione di timing. Un attore sa che a quel punto inizierà un effetto e così via, quindi possono improvvisare ma sempre all’interno di un contesto rigido. Non mi piace però utilizzare i blue screen poiché uccidono la vita e la recitazione, preferisco filmare le animazioni in anticipo e poi proiettarle sul set. Quindi lavoro molto in pre-produzione e il meno possibile in post-produzione.

Questo mi sembra un altro elemento che ti accomuna a Rybczynski, il quale negli anni ’80 creava i suoi effetti e lavorava su layers multipli mediante una regia in diretta e quindi limitando gli interventi in fase di post-produzione.

Beh, pensa che tutti gli elementi di animazione de La Science des reves sono stati realizzati sei mesi prima delle riprese. Ovviamente ho dovuto convincere i produttori, poiché non sono abituati a questo modo di lavorare: gli inserti di animazione si fanno solitamente dopo e non prima.

Mi pare di capire che per te la recitazione è importante, così come anche la narrazione non è secondaria.

Anche se costruisco una scena molto ricca di elementi, cerco sempre di focalizzarmi sulla recitazione. Qualche volta mi dico: ci sono troppe idee visive, meglio concentrarsi sulla storia. Spesso sono assillato da un dilemma, poiché da un lato adoro esprimermi attraverso una grande ricchezza di immagini, dall’altro ho voglia di sedurre lo spettatore mediante la narrazione.

Qual’è il tuo rapporto con il montaggio?

All’inizio montavo i miei clip secondo il ritmo della batteria. Un errore molto grave, poiché il montaggio non deve essere fatto in funzione della musica ma dell’azione narrativa. Generalmente il montaggio è la riscrittura di un film. Si filma tutto quello che è necessario per un film, ma poi durante il montaggio ti accorgi che molte cose non erano davvero necessarie. Per Eternal Sunshine c’erano molte scene che raccontavano il desiderio di interrompere la procedura di cancellazione. Io sentivo che doveva esserci un solo momento in cui il protagonista capiva di dover fare questo e così ho tagliato molte sequenze per paura di indebolire la scena decisiva.

Secondo quali criteri scegli i tuoi collaboratori?

Per me è molto importante servirmi di collaboratori che abbiano apertura mentale e siano in grado di sperimentare nuove idee uscendo dalle proprie consuetudini. Agli esordi lavoravo con 3 persone, poi con 10, quindi con 20, fino ad arrivare a 100 collaboratori quando ho girato film. Ora ho voglia di ritornare un po’ indietro, costruendo un’equipe di 10-15 collaboratori al massimo. Quando ci sono 100 persone è faticoso convincerle tutte che è possibile fare ciò che voglio fare. In questi ultimi anni sono stato molto assorbito da molti progetti, ho fatto un film dopo l’altro. Mi sento un po’ svuotato. Ora voglio prendermi una pausa, realizzare anche progetti collaterali, come delle mostre.

Veniamo a Is the Man Who is Tall Happy?, che hai presentato all’ultimo festival di Berlino. Come mai hai deciso di fare questo strano mix di documentario e film d’animazione, dialogando insieme a Noam Chomsky?

Chomsky è il solo personaggio vivente che faccia un lavoro davvero completo, tanto a livello scientifico quanto politico. Molti ricercatori scientifici dicono cose banali sulla società e sulla politica. Di contro, nessun politico o responsabile di affari internazionali conosce la scienza. Chomsky è uno scienziato immenso, non a caso è considerato l’Einstein della linguistica. Il suo approccio è molto dettagliato, critico e potente. Ho dovuto però scegliere la forma del dialogo altrimenti avrebbe parlato sempre e soltanto lui.

La scelta di usare solo disegni animati è dettata solo dalla passione o da altro?

No, ho scelto di non usare immagini reali perché sono facilmente manipolabili, mentre invece un’animazione, proprio perché è una rappresentazione soggettiva e una interpretazione creativa della realtà, paradossalmente non è manipolabile. Alcuni documentari manipolano le emozioni di chi guarda mediante il montaggio e portano lo spettatore ad avere un’opinione anziché un’altra. La forma del documentario suscita una credibilità assoluta dello spettatore.

Cosa pensi in generale del linguaggio e della comunicazione tra individui?

Abitando negli Usa e parlando male l’inglese ho sempre avuto problemi di comunicazione, anche con la troupe dei miei film e video, così ho preferito esprimermi soprattutto attraverso i disegni, anche per superare la mia timidezza. Le difficoltà di comunicazione si manifestano anche attraverso cattive interpretazioni della realtà: per esempio mi è capitato di interpretare come segnali amorosi nei miei confronti, atteggiamenti di ragazze che invece non erano tali.

Forse deriva da questi continui quiproquo che hai vissuto sulla tua pelle la difficoltà di comunicare che hanno i personaggi dei tuoi film.

Si, è probabile. Più in generale credo che ciascuno dia un’interpretazione sbagliata di quello che dice l’altro.

Puoi parlarmi della cittadella del cinema che intendi creare a Parigi, nella zona di Aubervilliers, anche se purtroppo il progetto è attualmente sospeso a causa dei finanziamenti?

La città del cinema che sogno è una cosa semplice e complessa. Chiunque potrà accedervi dopo aver scritto una storia insieme ad altre persone mettendosi d’accordo con loro, in modo democratico, sul modo di realizzarla. A questo punto viene data loro una videocamera a condizione di girare il film seguendo la storia in ordine cronologico, senza montaggio né post-produzione. E basta. Voglio dimostrare che le persone possono creare delle cose in modo totalmente autogestito, senza che venga loro detto cosa fare e come farlo. Quando vedranno i loro film proiettati non solo si divertiranno, ma impareranno dai loro errori. Insomma la mia idea non è assolutamente di mettere in piedi l’ennesima scuola di cinema, bensì attuare un esperimento di carattere sociale.