La recente uscita di una monografia che analizza criticamente la sua opera complessiva, è il pretesto per parlare di e conversare con Michele Sambin, padovano, classe 1951, musicista, regista e performer teatrale, pittore, disegnatore, ma soprattutto autore di film sperimentali in pellicola e pioniere delle arti elettroniche. Artista completo, dunque, che da oltre 45 anni porta avanti una singolare ricerca. Il volume, intitolato Michele Sambin – Performance tra musica, pittura e video, edito da Cleup ecurato da Sandra Lischi con Lisa Parolo, è davvero molto esaustivo, nonché riccamente illustrato dall’artista stesso, che ne ha concepito l’impostazione grafica. Un libro di 250 pagine che rappresenta l’occasione per rendere in parte giustizia a un artista tanto poliedrico.

Il suo incontro con le immagini in movimento, dopo gli esordi in pittura, avviene nel 1968 e si protrarrà fino al 1978, attraverso film in 8 e 16mm come Laguna (1971), Blu d’acqua (1972), Tob & Lia (1974), Murales (1974) e Film a strisce (1976). Nel frattempo dal 1974 Sambin aveva iniziato ad adoperare il videotape, grazie al quale fonda l’interesse per la performance e quella per la musica, realizzando lavori come Spartito per violoncello (1974), Echos (1976), Concerto per clarino e VTR (1976), Autoritratto per quattro camere e quattro voci (1977) o Looking for Listening (1977). Opere in cui l’artista mediale crea un dialogo continuo tra la componente sonora e quella visiva, interfacciando strumento acustico e dispositivo elettronico, e inserendosi nell’alveo delle coeve ricerche sperimentali che si configuravano all’epoca in ambito internazionale.

Ma fondamentale per l’estetica di Sambin è l’invenzione del videoloop, che lo porta a creare video monocanale tra cui Il tempo consuma, Anche le mani invecchiano o Io mi chiamo Michele. Il primo, che da anche il titolo a un’installazione più complessa, è costruito su un sistema a circuito chiuso composto da due videocamere, due monitor e due videorecorder, il primo che registra (e cancella) e il secondo che legge, attraverso i quali transita lo stesso nastro magnetico, che riprende dunque un’immagine di un’immagine di un’immagine fino alla dissoluzione del segno e del suono.

Il videoloop viene messo a punto all’interno del Cavallino di Venezia – galleria innovativa che si specializzò nella produzione di videotape di artista (oltre a Sambin, anche quelli di Guido Sartorelli, Luigi Viola e altri) – anche per dimostrare come il medium elettronico non fosse solo uno strumento di pura documentazione, con i suoi limiti tecnici (bassa definizione, bianco e nero, difficoltà di montare e creare effetti), bensì un complesso dispositivo autoriflessivo, ricco anche di implicazioni filosofiche, oltre che poetiche. Nel videoloop – utilizzato per la prima volta da Sambin nel 1978 nella performance VTR and I al Palazzo Reale di Milano – la graduale consunzione delle immagini e delle parole, porta con se – metaforicamente – una consumazione dell’essere. Sambin gioca su questa progressione invertita, attivando ante litteram una sofisticata riflessione sull’obsolescenza tecnologica.

Purtroppo questa ricerca avviene sul finire degli anni ’70, quando siamo ormai prossimi, anche nel nostro paese, all’era della post-produzione che avrebbe rivoluzionato il mondo della videoarte, attraverso la possibilità di manipolare le immagini con l’ausilio di hardware, costosi e accessibili a pochi. Ma di lì a qualche anno sarebbero poi comparsi anche gli spettacolari videoambienti di Studio Azzurro, a rendere improvvisamente archeologiche le altre sperimentazioni sul medium. Sambin è un anticipatore, ma poi – dopo aver realizzato un’importante installazione nel 1981 alla Triennale di Milano – From Left to Right, decide di dedicarsi ad altro, alla musica e al teatro soprattutto, fondando qualche tempo dopo il TAM Teatromusica. Questo abbandono del regno delle immagini in movimento, dettato anche dalla difficoltà di reperire fondi per realizzare i suoi progetti a volte tecnologicamente ambiziosi, lo penalizza, non gli consente di approfondire la ricerca e, soprattutto, lo condanna un po’ all’oblio. Nonostante tutto Sambin riprende il discorso interrotto con il video nella prima metà degli anni ’90, realizzando diversi lavori con i detenuti del carcere padovano Due Palazzi. Da quel momento per Sambin è iniziata una nuova stagione.

IL VIDEO? E’ UNO STRUMENTO MUSICALE

Conversazione con Michele Sambin

Cominciamo con la tua formazione. Hai frequentato l’accademia di belle arti?

Si, a Venezia, ma la interruppi per via del servizio militare dimenticando di avvisare e all’epoca c’era una legge per cui se saltavi un anno dovevi ricominciare daccapo. In realtà non ho imparato nulla, né dal liceo artistico né dall’accademia, mentre ho appreso tanto frequentando in seguito, a Palazzo Fortuny, l’Università Internazionale dell’Arte creata da Giuseppe Mazzariol, un personaggio che ha portato grandi architetti a Venezia, sperando che diventasse una grande città moderna. Fu lui a chiedermi di fargli da assistente e quindi, giovanissimo, ho iniziato a guadagnare un po’ di soldi.

Nei primi anni ’70 tu, musicista di formazione, hai scoperto l’immagine in movimento. Cosa ti ha spinto verso questo genere di ricerca?

Il punto di partenza è il rapporto immagine/suono, il non separare queste due mie grandi passioni e, sul finire degli anni ’60, l’unico strumento che consentiva di farlo era il super 8. Bastava un briciolo di organizzazione, moviola e altri strumenti non professionali per realizzare esperimenti in cui mi interessava sonorizzare le immagini che costruivo. L’idea era di un linguaggio che non distinguesse gli elementi visivi da quelli sonori. C’era già il concetto di una composizione unitaria, anche se il cinema non mi consentiva di registrare in sincrono l’immagine e il suono.

Però alcuni tuoi film sono muti, penso a Diogene o Film a strisce…

Film a strisce è muto perché veniva sonorizzato live, alle proiezioni ero sempre presente ed era fondamentale la sonorizzazione dal vivo legata all’idea della petit morte (questo era il sottotitolo), ovvero il raggiungimento di un orgasmo visivo. Al termine del film c’era un lungo pezzo di pellicola bianca, quindi solo luce. Io suonavo accanto allo schermo e, quando le immagini terminavano, entravo fisicamente nel quadro di luce continuando questo viaggio nell’assoluto solo dal punto di vista musicale.

In che modo impostavi la musica?

La musica nei miei film è fondamentale. Penso a 1 e 2, ad esempio, dove, per comprendere il gioco, ho prima inserito una musica primaria, istintiva, nella fase in cui l’uccisione del topolino è cruenta, per poi passare ad una musica fintamente dolce per accompagnare la seconda parte, in cui le giovani borghesi stritolano il topolino in maniera apparentemente meno spietata. Da questo film parte la mia sperimentazione sul rapporto immagine/suono. Per giungere poi a Blu d’Acqua, film in cui sono approdato all’astrazione. La musica di questo film è free jazz puro, ispirato a Contrane, Coleman e altri. L’immagine è trattata come una partitura, poiché ho costruito tutto il film secondo una struttura matematica, mentre la parte sonora è avvenuta quasi in diretta, vedendo le immagini, in modo totalmente libero.

Soffermiamoci su Blu d’acqua, forse la tua opera filmica più signiificativa, dove convergono i tuoi interessi per il suono, la pittura e anche la performance, all’epoca l’avremmo definita arte di “comportamento”.

Blu d’acqua è un film programmatico che ha al suo interno una dimensione molto istintuale, performativa e anche una parte estremamente razionale, ovvero la drammaturgia del film, che è data dalla pittura. La spina dorsale è un quadro che all’inizio si presenta nero, costituito da tessere mosse in stop motion e che, col progredire del film, si colora sempre più: il sottotesto di Blu d’acqua sono le relazioni tra i colori in rapporto agli abitanti di una città come Venezia. Parlo delle relazioni indotte che si creano quando due persone si incontrano in una calle strettissima, oppure quando si attraversa con il traghetto il Canal Grande e si determina una situazione di pericolo che accomuna viaggiatori sconosciuti tra loro. Tutti questi rapporti interpersonali, scorrono parallelamente ai rapporti intercromatici; tale euforia di colori, infine, arriva al bianco e all’astratto, esattamente come l’obiettivo della cinepresa smette di filmare le persone e si concentra sulla pietra, sull’acqua, sulla luce.

Se Blu d’acqua potrebbe essere considerato a suo modo narrativo, Film a strisce è invece decisamente “strutturale” ed è basato su sequenze filmate attraverso fessure, che vengono poi sovrapposte direttamente in macchina mediante il procedimento dell’esposizione multipla.

Film a strisce è un altro concentrato di idee, di pensieri, di teorie tecnico-poetiche, anche se di breve durata in realtà al suo interno vi sono ben 30 minuti di girato, ridotto, per mezzo di sovrapposizioni, a tre minuti. E tieni conto che l’ho girato subito dopo aver utilizzato per la prima volta il video, quindi con l’esigenza di marcare la totale differenza tra i due medium.

Come hai vissuto il passaggio al videotape intorno al 1974?

Il video per me è stato inizialmente un block notes, un quaderno di appunti rispetto alla forma più completa e definita che è l’opera filmica.

Tecnicamente parlando hai avuto difficoltà all’inizio a utilizzare questo nuovo dispositivo?

No, perché avevo una certa esperienza di nastri magnetici, avevo già tagliato e montato nastri audio. Il mio primo video, Spartito per violoncello, l’ho realizzato di getto con il primo sistema video dell’Akai, acquistato a Milano. Il videotape all’epoca era uno strumento di grande immediatezza, un medium di ampio respiro, che aveva bisogno di poca luce, inoltre abbassava molto i costi. Ricordo che Film a strisce mi era costato un po’ di soldi. Naturalmente il montaggio video era impossibile, quindi giravo le sequenze suddividendole in piccoli capitoli, ottenevo gli stacchi mascherando l’obiettivo con il coperchio.

Nei tuoi video c’è anche una grande mobilità della camera.

Si, muovevo la camera musicalmente. Mi accorsi per la prima volta che potevo usarla come strumento musicale. C’è da dire che, essendo un grande frequentatore della musica contemporanea, vedevo che la scrittura non era più quella tradizionale, lo spartito era esploso, gran parte dell’opera era affidata all’interprete. Per me dunque il video diventava un modo per estendere le indicazioni che un compositore voleva dare all’esecutore. Un suono a testa del 1976 si basa sull’idea di volti “suonabili”, rappresentabili per mezzo del suono. La camera panoramica su sette volti (come le note) e, a seconda del volto, muta il suono. All’inizio sono presentati i sette volti/suoni, poi l’ordine (e quindi i rapporti) tra i suoni e i volti cambiano. Ho intenzione di creare una nuova sonorizzazione di questo mio vecchio lavoro, utilizzando internet: invierò il video a Rob Mazurek, un amico musicista di Chicago e gli chiederò di scegliere un volto da sonorizzare, poi passerò a un altro musicista che ne sceglierà uno a sua volta e così via. All’epoca i sette musicisti erano di fronte al monitor e suonavano insieme guardando le immagini, ora il procedimento sarà diverso, non sarà musica di insieme, bensì per accumulo e ciascun musicista si baserà su quello che il suo collega ha fatto in precedenza.

Riassumendo, cosa ti interessava di più in quel periodo nell’utilizzo del video?

Lo scardinamento dei rapporti naturali causa/effetto. Echos è l’inizio di questa fase all’insegna dello stravolgimento della realtà. Questa idea di scombinamento nasce dalla necessità di riconoscere il reale, comprenderlo mediante una rottura. Questi due concetti – ovvero l’immagine video come partitura e lo scombinamento del rapporto causa/effetto – a cui, se vuoi, aggiungerei l’idea di utilizzare la camera come strumento musicale, sono gli assunti per i lavori che seguiranno.

Ma parliamo ora della fase successiva, quella del cosiddetto videoloop, un dispositivo o, meglio, una serie di dispositivi, che hai creato tu stesso e che, malgrado una certa rimozione da parte degli storici delle arti elettroniche, ti pone tra gli sperimentatori più innovativi e non solo in Italia.

Se in una prima fase penso ai video in termini “monocanale”, l’obiettivo è realizzare opere video in cui subentra il tempo reale. E’ a partire da Looking for Listening che inizio un discorso sullo sdoppiamento: il video, cioè, riesce a farmi dialogare con me stesso. Nasce la necessità di creare macchine che mi consentissero una drammaturgia, ovvero il videoloop.

Ricordi come ti venne in mente di elaborare questo particolare dispositivo?

La scoperta avvenne nella galleria del Cavallino, alla presenza di Paolo Cardazzo e di Andrea Varisco, il tecnico con cui poi lo realizzai. Con Cardazzo funzionava così: uno progettava le cose e poi andava a discuterne la realizzazione. Quando abbiamo sistemato tutto l’apparato e teso correttamente l’anello di nastro (altrimenti non leggeva), ci sembrava di aver inventato la ruota. E’ stato emozionante!

Come possiamo definirlo in sintesi?

E’ un sistema che utilizza l’apparecchiatura video per produrre una circolazione di immagini ma in continua evoluzione, in maniera automatica. La definizione “il tempo consuma” indica un deterioramento dell’immagine e del suono, ma dal mio punto di vista si tratta di una trasformazione. A me interessavano più le immagini consunte, distrutte, che quelle nitide. Ed è interessante vedere come in certi lavori, penso a Sax soprano 2, dopo cinque minuti di immagini reali del sax che suona si giunge a un risultato totalmente astratto, un’immagine decomposta ottenuta per successivi passaggi, ma pur sempre un’immagine generata dalla realtà.

Non mi pare ci siano artisti che, a livello internazionale, abbiano realizzato qualcosa di simile al tuo dispositivo. O sbaglio?

Assolutamente no. Mettiamo subito in chiaro che il videoloop non ha nulla a che fare con la mise en abime, con il feedback ecc. Piuttosto sono debitore del loop in ambito musicale, penso a Terry Riley che lo utilizzava con due Revox…

Cosa ha rappresentato per te questa esperienza?

Il videoloop è una tecnica poetica che ha condizionato tutto il mio lavoro. E’ diventato un modo di intendere la vita, perché vuol dire trattare il tempo in modo circolare. Riprendere oggi cose fatte nel passato, che tuttavia non hanno perso la loro forza, per rielaborarle in un tempo presente significa sottolineare quanto nel mio percorso non ci sia un tempo lineare, narrativo. Vorrei aggiungere che mi piacerebbe fare un remake de Il tempo consuma poiché sono pentito di aver registrato il videoloop solo per pochi minuti, mentre avrei dovuto lasciar andare il nastro all’infinito, fino alla consunzione totale delle immagini. Il motivo è che odiavo i videotape chilometrici. Purtroppo con il digitale non si può ottenere lo stesso effetto. Ci vorrebbero due portapack della Sony e comunque non sarebbe semplice ricostruire tutto il dispositivo originario.

Ma in generale tu all’epoca conoscevi le installazioni di Naumann oppure le sperimentazioni dei Vasulka che interfacciavano strumenti musicali e videocamera?

No, queste cose allora non si vedevano in Italia, però alcuni artisti, pur non conoscendosi, erano accomunati da un unico “sentire”, dal bisogno di lavorare sulle stesse cose. Inoltre Europa e Usa avevano come matrice condivisa il lavoro di John Cage.

Oltre a Cage quali erano per te i modelli di riferimento tra gli sperimentatori, sia dal punto di vista dell’immagine che del suono?

Per esempio due musicisti-cineasti come Mauricio Kagel e Michael Snow. Quando ho visto La Regione centrale sono rimasto sconvolto: mentre il cinema underground mi dava la possibilità di aprirmi a nuove visioni, penso a Brakhage, Snow mi trasmetteva un senso di rigore. E poi ero influenzato da autori classici come Ejzenstejn: la struttura matematica di Blu d’acqua è sicuramente debitrice della sua Teoria del montaggio.

Come mai all’inizio degli anni ’80, dopo l’installazione per la Triennale di Milano, hai smesso di usare il video?

Se negli anni ’70 noi cercavamo di proporre un nuovo linguaggio attraverso il video, un linguaggio che avrebbe dovuto modificare la comunicazione, poi ci siamo resi conto che il mercato ha vinto sulle idee. E’ iniziata l’era delle prime tv private.

Molte tue installazioni sono rimaste solo progetti su carta, anche affascinanti dal punto di vista grafico, che ha inserito nella tua monografia. Perché non sei riuscito a realizzarle?

Servivano molte attrezzature e soldi. Il mio riferente era il Palazzo dei Diamanti e già per From left to Right avevo bisogno di cinque monitor e me ne dettero solo tre. Quando vidi Studio Azzurro realizzare Il nuotatore a Palazzo Fortuny – che consideravo un po’ “casa mia” perché ho avuto lì il mio studio per anni – li ho invidiati perché avevano molte risorse pur rimanendo fuori dal mercato dell’arte. Rispetto a me sono stati sempre più bravi a cercare soldi, attraverso committenze, rapporti con le aziende.

Ti piaceva la ricerca portata avanti da Studio Azzurro negli anni ’80?

Ho molto amato Il giardino delle cose,ma mi hanno affascinato anche gli spettacoli realizzati con Barberio Corsetti. Diciamo che loro hanno proseguito il mio discorso laddove io l’ho interrotto…idee che erano nell’aria, anche se non so quanti miei lavori abbiano visto all’epoca Rosa e compagni. Lo stesso nuotatore ha molto a che fare con le mie ultime idee installative, come Il tempo consuma (che aveva lo stesso titolo del video monocanale), composto da nove videoloop su altrettanti monitor, esposto nel 1980 a Milano in Camere incantante, la mostra curata da Fagone, l’unico critico e storico dell’arte a prendere in considerazione i miei lavori, quando gli altri non vedevano di buon occhio queste cose.

Qual è il tuo giudizio sul cosiddetto “videoteatro” che si andava diffondendo in Italia in quel periodo?

Lo trovavo interessantissimo. In realtà il medium elettronico l’ho adottato in spettacoli come Opmet e Axel: quest’ultimo è una sorta di videotestamento di un compositore che racconta alla propria nipote tutta la sua esperienza; il personaggio era interpretato da mio padre, un ricercatore di storia medievale, che ho trasformato in ricercatore di suoni e all’interno dello spettacolo appariva in un monitor rovesciato. Solo nel 1993 sono ritornato sistematicamente al video, grazie all’esperienza con i detenuti del carcere Due Palazzi di Padova, utilizzandolo all’interno degli spettacoli teatrali, circa una quindicina, realizzati fino 2005 tra cui Meditazioni da Giotto, Natura selvatica o VideOtello, L’immagine in movimento, insomma, diventava una necessità per portare all’esterno del carcere un’esperienza che, altrimenti, non avrebbe avuto visibilità. Il rapporto con i detenuti ha ribaltato la mia visione dell’arte e mi ha ricondotto a un livello più umano. Bisogna dipingere per dio o per gli uomini? – questo è il dubbio posto da Tarkovskij in Andrej Rubliev. Bene, dopo l’incontro con i detenuti ho capito che è importante dipingere per gli uomini.

Da cosa è derivata la scelta di intraprendere l’attività teatrale?

Quando alla fine degli anni ’70 arriva la Transavanguardia c’è un ritorno all’ordine per questioni di mercato e io, non volendo rinunciare al rapporto diretto con lo spettatore che avevo vissuto attraverso la performance, ho capito che l’unico luogo dove potevo continuare quella esperienza era il teatro. I primi spettacoli in realtà li allestisco nella sala polivalente del Palazzo dei Diamanti, quindi, di fatto, erano una prosecuzione della mia attività di artista video.

Personalmente trovo che sia un vero peccato che, anche in Italia, il tuo lavoro così innovativo non sia mai stato preso seriamente in considerazione. Senti di essere stato emarginato? E per qualche motivo?

Si, tutta la mia storia risente di un non-riconoscimento e ciò è imputabile a vari fattori, a cominciare dal fatto che non sono una figura chiara e definita, ma trasversale. Inoltre a me interessava la ricerca e non mi sono mai dedicato alle pubbliche relazioni, anche per via del mio carattere. E anche Cardazzo non era il massimo sotto il profilo della comunicazione, quindi tutte queste esperienze, pur essendo importanti, sono rimaste nascoste. Ma devo anche dire che in quel periodo ebbi alcuni riscontri: un bel rapporto con Maria Gloria Bicocchi di Art/Tapes 22, grazie alla quale feci per l’ASAC di Venezia Looking of Listening (avevo 27 anni, prima di me c’erano stati artisti come Chiari e Jean Otth), oppure la collaborazione con il Palazzo dei Diamanti a Ferrara, dove feci bellissime installazioni e portai tutte le mie videoperformance musicali. In conclusione non provo rammarico e, siccome ho sempre risolto i miei problemi di sussistenza economica fuori dal mercato dell’arte, ho potuto mettere al primo posto quella libertà creativa che, altrimenti, non avrei mai avuto.