Visto da lontano il campo sembra una gigantesca discarica a cielo aperto. E l’odore, nauseabondo, che si trascina per centinaia di metri fino alla strada che porta in città, sembra confermare la prima impressione.  Man mano che ci si avvicina la tendopoli, incastonata in una immensa distesa verde scuro di alberi d’ulivo, inizia a prendere forma. In effetti la spazzatura c’è, disseminata su tutto il perimetro dell’area: residui alimentari, bottiglie e sacchetti di plastica, galleggiano nelle pozzanghere infestate dagli insetti – ha piovuto molto nelle ultime settimane. E quelli che da lontano sembravano dei cassonetti dell’immondizia, sono in realtà delle capanne di cartone e plastica.

SONO CENTINAIA e da mesi ospitano circa 1200 migranti. Sono arrivati qui a Campobello di Mazara, nel cuore della provincia di Trapani, da ogni parte d’Italia. Molti sono irregolari, in tanti sono richiedenti asilo, qualcuno ha già ottenuto lo status di rifugiato. Sono venuti fin qui per lavorare nelle campagne dell’isola, al servizio dei caporali. Ma di lavoro nelle campagne non ce n’è. Secondo i dati della Coldiretti, la produzione di olio d’oliva in Sicilia quest’anno ha toccato un minimo storico, con un calo di quasi il 42% rispetto alla media stagionale. Il risultato è un esercito di migranti intrappolati nei «ghetti di lavoro» del Sud Italia. Bloccati dallo scorso settembre in un limbo di tende e rifiuti, non hanno più il denaro per tornare a casa.

Ma ogni giorno, alle prime luci dell’alba, vale pur sempre la pena provarci: la lunga attesa inizia già alle 4 del mattino. Centinaia di migranti, in fila davanti le porte della tendopoli di Campobello, aspettano i furgoni dei caporali. Con la crisi sono diminuite anche le paghe. Pur di racimolare pochi spiccioli per tirare a campare, gli immigrati sono disposti a sudare per meno di due euro l’ora. Ma nonostante il misero salario, sono in pochi a salire sui furgoni. Gli altri continueranno a sperare nell’arrivo di altri reclutatori fino alle 11 del mattino. Indossano sandali, berretti e coperte per proteggersi da un maledetto vento da nord che da qualche settimana soffia forte sull’isola. L’età media varia dai 18 ai 55 anni, e tra di loro c’è più di un minore. Non si vedono invece donne.
«Questa mattina ne hanno presi a lavorare una cinquantina» dice Amadou. «Io purtroppo anche oggi sono stato scartato. Dicono che sono troppo vecchio», sorride. Da circa un mese e mezzo Amadou Fofana, senegalese di 53 anni,  condivide una minuscola tenda blu insieme ad un altro connazionale. Dal 2008 vive a Lecce. Anche lui come gli altri è arrivato in Sicilia dalla Puglia per la raccolta delle olive, investendo quasi tutto quello che aveva per comprare un biglietto del pullman da Lecce a Palermo, sicuro di recuperare quell’investimento lavorando nelle campagne dell’isola. Non è stato così. Amadou ha lavorato solo qualche giorno. Poi è arrivato il freddo, la fame e una dannata bronchite.

«Non so più cosa fare – racconta – molti di noi stanno male. La sera è un continuo coro di tosse e lamenti. Qui non ci sono medici né farmaci. E non c’è nemmeno abbastanza cibo né acqua. E’ un disastro».
Amadou non è l’unico e nemmeno il più sfortunato. Il campo ospita gambiani, nigeriani, maliani, senegalesi, ivoriani, incastrati dalla crisi e costretti a vivere da mesi in questa specie di bidonville, dimenticata da tutto e da tutti, e di cui solo in pochi conoscono l’esistenza.

La posizione del campo è strategica. Le capanne sorgono in un’area a poche centinaia di metri dai terreni dei contadini. Appartengono ai coltivatori locali che producono olio d’oliva, carciofi e arance. Per risparmiare sui costi di trasporto, i migranti hanno tirato su qui le loro tende. Difficile quantificare il numero invece dei lavoratori che alloggiano nei tuguri o nelle stalle di proprietà dei contadini. Come i disperati che lo scorso agosto erano costretti a vivere dentro un porcile a Montegiordano, in provincia di Cosenza.

Sul tetto di un grande edificio, al centro del piazzale dove oggi sorge la tendopoli, campeggia una vecchia insegna sbiadita: «Fontane d’Oro – recita – Oleificio». Fontane d’Oro, fino al 2013 era uno dei frantoi più battuti della zona. Poi i magistrati hanno scoperto che l’azienda apparteneva a due fiancheggiatori del boss Matteo Messina Denaro. Il bene fu confiscato a Cosa nostra e in seguito assegnato al comune di Campobello. Più volte vandalizzata da ignoti, doveva diventare sede della Croce rossa per accogliere i migranti. La Croce rossa di tanto in tanto c’è. Ma i migranti dentro l’edificio non possono stanziare. Eppure, quando la sera la temperatura si abbassa, ad Amadou e ai suoi compagni un tetto sopra la testa farebbe pure comodo.

«Alcune istituzioni sembrano far finta di nulla – spiega Valentina Campanella, giovane presidente dell’Anolf Sicilia, Associazione nazionale oltre le frontiere che ha come scopo l’integrazione dei migranti nel lavoro e nella società – si voltano dall’altra parte come se le campagne di Campobello, quelle di Cassibile e Vittoria non esistessero. Eppure il fenomeno, indisturbato, in silenzio e nella totale indifferenza, è in crescita. Le strutture di accoglienza sono al collasso e i migranti che non trovano spazio nei centri o che vogliono lasciare l’Italia sono disposti a tutto pur di lavorare e mettere da parte qualcosa. Diventano così la parte più vulnerabile e ricattabile della società. Non hanno alternative. E sono disposti a lavorare come schiavi».

«SCHIAVI» – dice Yoro «guardati intorno. Siamo 1200 schiavi. Guardaci. Guarda le nostre mani. Guarda le nostre facce. Sono mani e facce da schiavi». Yoro ha appena compiuto 17 anni. A guardarlo gliene daresti anche meno. Viene dal Senegal e i suoi genitori sono morti tre anni fa. Ci mostra delle grosse cicatrici sul capo dove i capelli non crescono più.  Sono i segni delle violenze subite in Libia, preso a calci e a bastonate dagli smugglers. Ha attraversato il mare e una volta giunto a Palermo è scappato dal centro di accoglienza. «Avevo bisogno di lavorare – racconta – Ho incontrato alcuni connazionali per la strada e mi hanno convinto a unirmi a loro. Pensavo di riuscire a fare qualche soldo. Ma ho lavorato solo qualche giorno. I proprietari delle terre dicono che sembro troppo giovane e rischiano grosso in caso controlli».

YORO trascorre intere giornate al campo insieme a chi, anche oggi, non è stato scelto per lavorare nelle campagne. Chi è rimasto senza lavoro, prova a racimolare qualcosa vendendo l’acqua calda nella tendopoli. Ci sono solo un paio di rubinetti e devono bastare per tutti gli ospiti. L’acqua è gelida. Per riscaldarla, bisogna riempire dei giganteschi bidoni di latta e farla bollire sotto un fuoco. Ogni secchio costa 50 centesimi. Intorno alle 6 del pomeriggio, i migranti fanno ritorno dalle campagne. Sporchi di terra, assetati e affamati, fanno la fila davanti ad una squallida struttura rettangolare fatta di legno e teli di plastica. Poggia su una palude maleodorante, di colore verde scuro: è qui che i lavoratori fanno la doccia. In mano tengono un contenitore di acqua calda. Gli ultimi in fila incitano i primi a fare in fretta. L’acqua inizia a raffreddarsi e non hanno intenzione di spendere altri 50 centesimi per un altro. Altri devono affrettarsi per le consuete preghiere della sera. Nelle tende un gruppo di gambiani ascolta la musica. Altri giocano a dama utilizzando un foglio di cartone come scacchiera e dei tappi di plastica al posto delle pedine. Qualcuno ne approfitta per medicare le ferite del lavoro: tagli a mani e braccia vengono fasciati con scotch e carta igienica.

VERSO SERA, i fuochi sparsi tra le tende illuminano di una luce fioca il campo mentre i fumi dei giganteschi pentoloni di carne e riso si alzano verso il cielo. Un gruppo di migranti tunisini è alle prese con la carne dietro il bancone di una bancarella. Sono gli esperti macellai halal che incartano fette di bovino e agnello da rivendere agli ospiti musulmani. Quello della carne non è l’unico business dei tunisini all’interno del campo. Ci sono altre bancarelle dove i magrebini vendono di tutto. Scarponi da lavoro, pantaloni, carica batteria per i cellulari, carta igienica e riso.

SECONDO i dati del governo regionale, i tunisini con un regolare permesso di soggiorno presenti nell’isola sono quasi 20.000. Anche loro lavorano nei campi. E molti di loro, grazie alla loro conoscenza del territorio, sono diventati caporali. Il fenomeno è diffuso soprattutto nel versante orientale della Sicilia, nelle province di Ragusa e Siracusa. Qui, i tunisini che vivono nell’Isola da oltre vent’anni, hanno affittato molte delle serre presenti nella zona di Vittoria e Santa Croce Camerina di proprietà degli italiani. Coltivano melanzane, pomodori e carciofi e reclutano manodopera a basso costo e senza regole tra la loro stessa comunità.

«IL LAVORO SCARSEGGIA anche qui – dice Rami Walid, tunisino di 32 anni che vive a in provincia di Ragusa – E se chiediamo dei salari regolari ci voltano le spalle. O lavoriamo secondo le loro regole o rischiamo di fare le fame in strada. Per di più, oltre alla crisi, gli imprenditori ci hanno tagliato fuori anche da quel poco lavoro che c’è. Ci hanno rimpiazzati con i rumeni. Più facili da assumere perché in caso di controlli, i rumeni, sono cittadini europei e i proprietari con loro non rischiano di far lavorare clandestini come molti di noi».

«IL FENOMENO del caporalato, oltre a togliere la dignità ai lavoratori immigrati, sta creando delle tensioni etniche tra le comunità coinvolte nello sfruttamento – dice Angelo Galanti, presidente dell’Anolf di Ragusa – I subsahariani odiano i magrebini che li sfruttano come schiavi. I tunisini odiano i rumeni e li accusano di rubar loro il lavoro. I lavoratori italiani a loro volta non accettano che al loro posto gli imprenditori scelgano manodopera straniera a basso costo. E’ una guerra tra poveri dove naturalmente gli unici a uscire vincenti sono i loro sfruttatori».

E guai ad alzare la cresta. Quando lo scorso maggio, nelle campagne di Favara, un nigeriano di 27 anni ha tentato di ribellarsi, stava per rimetterci la pelle. Il giovane africano aveva chiesto al proprietario dell’azienda, un italiano di 28 anni, un pagamento extra di 5 euro per aver lavorato due ore in più in campagna, così come concordato con lo stesso imprenditore prima che quest’ultimo però cambiasse idea alla fine della giornata. Il ragazzo ha protestato e per risolvere la questione l’italiano ha pensato bene di impugnare una pistola e sparare diversi colpi contro il nigeriano, ferendolo gravemente alle spalle. «In questa indagine viene fuori tutta la disumanità di questo fenomeno – spiega il procuratore di Agrigento, Salvatore Vella che si occupa delle indagini– gli immigrati sfruttati nelle campagne vengono trattati come carne da macello. Sono considerati oggetti, proprietà degli imprenditori, schiavi appunto».

INTANTO nella tendopoli di Campobello è calata la notte. E’ tempo di riscaldarsi attorno ad un fuoco. Chi ha lavorato durante il giorno, stremato dalla fatica, dorme già da qualche ora dentro le tende. Chi è ancora sveglio osserva in silenzio la legna ardere lentamente. Tra poche ore inizierà la lunga processione di uomini davanti l’ingresso del campo, in attesa dell’arrivo dei caporali. Amadou ci riproverà e domattina attenderà anche lui che qualcuno si decida finalmente a portarlo nelle campagne. Ha bisogno di lavorare. Amadou vuole tornare a casa. ‘’Chissà, domani, come per magia, mi sveglierò ringiovanito di qualche anno – sorride Amadou – visto che mi considerano troppo decrepito per lavorare. La verità è che è questo campo a farmi invecchiare. Questi giorni, interminabili. Questi giorni intrappolato in questa tenda, che sembrano anni’’.