Fine anni trenta, una uggiosa Helsinki primaverile all’alba, esili raggi di sole che si fanno strada timidamente attraverso le nuvole fitte. Al numero otto di Rantakatu la signorina Hallamaa, impiegata alle poste, con una bottiglia di latte in mano, si stringe pudicamente nel cappotto per nascondere la vestaglia, e trascinando con piglio feroce le vecchie pantofole fino alla guardiola della portineria del palazzo va a lamentare, per l’ennesima volta, il puzzo di gas che infesta la tromba delle scale.
Sembra una monotona giornata come tutte le altre, ma in realtà la morte ha già trovato il tempo per «espandersi furtiva e invisibile» nei corridoi e mietere le sue vittime: l’avara signora Skrof, «il genere di donna che si sarebbe strangolato volentieri», e il suo cane. Sono solo le prime battute con cui Mika Waltari, il più prolifico e noto scrittore finlandese di tutti i tempi, dà il via a Chi ha ucciso la signora Skrof? (traduzione di Marja Peltonen e cura di Giorgia Ferrari, postfazione di Luca Scarlini, Iperborea pp. 206, euro 14,00), il romanzo che inaugura una breve ma fortunatissima serie di polizieschi di cui è protagonista il burbero, corpulento e caustico commissario Palmu.

Sebbene veloci, queste prime battute sprigionano già il mood dell’intero romanzo: una crime story all’inglese costruita sul modello del whodunit, molto in voga all’epoca, ma originalissima, perché i colori della tela letteraria di Waltari sono impastati con terra e aria finlandesi. L’ambientazione è piccolo-borghese, ognuno è concentrato solo su stesso, sulle proprie grandi e piccole frustrazioni, ma non perde occasione per spiare la porta del vicino. Nessuna nota tragica nel racconto, dove regna un’atmosfera la cui squallida impassibilità non è che l’altra faccia dell’ironia nella quale ha finito per tradursi una passione costretta a sopravvivere nel rigore del freddo e della lontananza della terra finlandese.
In questo senso, il clima dei gialli di Waltari anticipa già per certi versi l’atmosfera dei film del conterraneo Aki Kaurismäki, in cui lo stesso senso di distanza, l’ironia impassibile e però anche disperata porta con sé non solo la consapevolezza di una denuncia sociale, ma anche una calibrata e pacifica fuga dalla realtà nella cui rassegnazione vive, tuttavia, la speranza del nuovo.
Siamo nel 1939, all’alba della Seconda guerra mondiale, e in particolare per la Finlandia della Guerra d’Inverno. Mika Waltari, già reduce dal canonico grand tour continentale, a Parigi ha vestito i panni del bohémien dando vita nel 1928 al romanzo che l’ha reso famoso in patria, La grande illusione, e si è imposto nel mondo letterario finlandese come traduttore (dal francese), giornalista, critico letterario, drammaturgo e sceneggiatore. Il poligrafo giovane scrittore si è cimentato anche nel romanzo autobiografico (la trilogia Di padre in figlio) e nel 1937 ha fatto parlare di sé con lo scandaloso romanzo erotico Il podere (uscito in Italia nel 1942) al quale ha dato un epilogo-risposta nel romanzo Il seguito,e finalmente nel 1939 è approdato al giallo.

Il commissario Palmu, con le sue «domande che sembrano colpi di pistola» seduce i lettori nel rispetto di quelli che sono ormai i topoi del genere: un giovane assistente sprovveduto, che in realtà tanto sprovveduto non è, un rapporto tra capo e subalterno intessuto di battute ironico-spigolose che naturalmente ci riportano alla memoria le celebri coppie Watson/Sherlock Holmes, Poirot/Hastings e non da ultimo Nero Wolfe/Archie Goodwin di Rex Stout (forse l’esempio idealmente e cronologicamente più vicino a Waltari) e un caso da risolvere in cui il processo deduttivo classico coinvolge tanto i protagonisti della vicenda quanto il lettore, sfidandoli sullo stesso piano.
Alla prima avventura del commissario Palmu, e del suo dipartimento di polizia di Helsinki, Waltari affiancherà altri due episodi (ancora inediti in Italia, mentre della Signora Skrof l’editore Alpes già nel 1943 aveva pubblicato una traduzione – non dal finlandese – dal titolo Delitto al numero otto, passando poi nel 1955 i diritti a Garzanti), uno nel 1940 e uno a vent’anni di distanza, nel 1962, facendo seguito al successo delle pellicole poliziesche del regista Matti Kassila, che al commissario Palmu dedicò ben quattro episodi cinematografici.

Tra il secondo e l’ultimo poliziesco di Waltari si apre però una lunghissima parentesi, che consentirà allo scrittore di raggiungere una fama mondiale: comincia per lui l’era dei romanzi storici, primo tra tutti Sinuhe l’egiziano, 1945, al quale resta di fatto ancora oggi legato il suo nome. Il romanzo verrà tradotto in quasi tutte le lingue e nel 1954 Hollywood ne produrrà il film in CinemaScope con la 20th Century Fox, sotto la direzione di Michael Curtiz, già glorificato in Casablanca una decina d’anni prima.

Insieme al primo giallo dello scrittore finlandese, la casa editrice Iperborea ha riproposto quest’anno in una nuova traduzione (integrale) anche il romanzo storico Gli amanti di Bisanzio(traduzione di Nicola Rainò, postfazione di Luca Scarlini, pp. 576, euro 19,50), scritto a sette anni di distanza da Sinuhe e preceduto dal meno noto «prequel» Johannes il pellegrino, rimasto però inedito fino alla morte dell’autore. Scritto questa volta all’indomani della seconda guerra mondiale, Gli amanti di Bisanzio (già uscito in italiano in una traduzione non integrale, dall’inglese, nel 1954 con il titolo L’angelo nero) è un dramma individuale e collettivo in cui in una narrazione serrata e vertiginosa si amalgamano senza respiro eros, ragione di stato, erudizione e morte.
Siamo a Costantinopoli negli ultimi giorni del 1452 e l’atmosfera decadente, ricostruita in forma di diario dalla coscienza narrante, prelude all’imminente fatale caduta dell’Impero romano d’Oriente: la disputa sul Filioque non è che la punta di un iceberg all’interno di un Impero la cui Chiesa è di fatto spiritualmente già scissa e si appresta ormai a perdere definitivamente una delle sue ali.

Johannes Angelos, l’«Angelo nero» della Storia, greco di stirpe, latino per formazione intellettuale (il suo maestro è stato Niccolò Cusano; ha vissuto alla corte papale di Avignone e alla corte dei Medici) è l’emblema di questa scissione individuale e storica. I giorni che preludono alla definitiva presa del potere ottomano vedono sbocciare l’amore proibito tra il cinico intellettuale protagonista e la bellissima Anna Notaras, la figlia del megaduca, secondo per autorità solo all’Imperatore di Bisanzio. È un amore impossibile, dunque cresce a dismisura intrecciando dispute teologiche a schermaglie erotiche, fino all’inevitabile tragico epilogo. Il 30 maggio 1453 il sacrificio è già compiuto: la ieratica e fastosa Costantinopoli è diventata Istanbul. È l’inizio di una nuova era. Ma gli implacabili corsi e ricorsi della Storia si avvicendano alla velocità incalzante della corrente del Bosforo, perché ogni impero è destinato a tramontare. Così, a noi lettori non resta che passare a Pamuk con i suoi pacati racconti intrisi di huzün turco – la malinconia – all’indomani di una nuova fine, questa volta dell’Impero ottomano.