Quale lo spazio e la misura del presente? A questa domanda sembra voler rispondere Ivan Carozzi con Teneri violenti (Einaudi, pp. 160, euro 17), un libro che si snoda tra la Milano già post Pisapia e un tempo contemporaneo espanso che riprende vita nelle pagine del romanzo, grazie all’incessante lavoro d’archivio del protagonista.
Un’indagine tra quella cronaca fatta di omicidi famigliari, amori privati e giornalismo tanto pettegolo quanto ingenuo. Ivan Carozzi attraversa Milano con lo sguardo puro e onesto del provinciale. Il centro – e quasi sempre solo il centro cittadino – è il protagonista di una storia languida e veloce in cui il personaggio al centro della vicenda specchiandosi nei vetri lucenti dei nuovi grattacieli – il patetico malinconico skyline meneghino – rivela le assurde pretese di una modernità già consunta, di una speculazione tutto sommato a gestione famigliare.
In sostanza poca cosa rispetto sia ai dolori che ai grandi affari che attraversano un’epoca in cui ogni cosa è presente e attuale.

Un tempo in cui l’inattualità ha il sapore opposto dell’opportunità, vero e proprio graal del movimento quotidiano del precario che fu cittadino e che oggi rincorre spesso a bordo di una vecchia bicicletta scassata il pane quotidiano senza più nemmeno l’epica e l’onore di essere un ladro di biciclette. Carozzi evita il frusto discorso sul precariato e sulla Milano che è o che è stata (in realtà cambia poco), bensì mostra, apre lo sguardo su ciò che è ovvio dando forma a quello che, seppure evidente, spesso non è compreso. Rifugge dal gioco facile di una riproposizione contemporanea e più che agra, arsa di Bianciardi per interpretarne direttamente il sentimento; convinto a ragione che il gesto comprenda e spieghi, senza delegittimarla, la critica: Ugo Tognazzi più che Luciano Bianciardi.
Due storie parallele, quella del protagonista schiacciato all’interno della catena produttiva (o almeno questa è l’ultima illusione) quale autore televisivo e quella che riassume in un crescendo emotivo, a tratti straziante e doloroso, le vite passate e tragiche di perfetti sconosciuti riportati alla ribalta da vecchie cronache giornalistiche ora al servizio di un quiz televisivo. Il successo come il fallimento scorrono come acqua dolce sulla pelle di un personaggio che pare assente, inattuale, ma che rivela un ostinato senso del proprio tempo ricercando nel passato, così come amando in un futuro possibile, la sempre più sfuggente e desiderata Silvia. Alla volgarità del tempo si oppone la distinzione di un’eleganza démodé. Una tenera dichiarazione di affetto perché oggi tutto ci riguarda e a tutto è meglio in qualche modo provare a volere bene, anche ai grattacieli, alle vetrate e al bello che in certe giornate d’autunno ispira pure il Bosco Verticale.

Il maggiore pregio di Teneri violenti è proprio la qualità sentimentale che Ivan Carozzi riversa nelle pagine in cui, ad una scrittura attenta e curata, affianca un’assenza di ironia intesa nella sua accezione più diffusa di cinismo e nichilismo.
Non conta la durezza degli anni e la loro confusione, non conta nemmeno se Silvia da donna presente si trasforma in un lontano e appannato desiderio. Conta invece l’affetto dello sguardo, la cura degli occhi intesa come la capacità di costruire intime visioni di desiderio, spazi di mare dentro – da nuotare e e attraverso cui far lievitare un sentimento d’amore e di libertà. Dare forma a questi teneri quanto violenti sentimenti senza un’ostentata spudoratezza o senza quell’ideologico risentimento, tipico dei tempi presenti, è un elemento prezioso del romanzo.

Teneri violenti riesce a recuperare lo spirito di un passato remoto che pare oggi lontano dagli occhi, come dalle ambizioni di chi troppo spesso è schiacciato da logiche mercantili insostenibili, ma anche da nostalgie e malinconie quasi sempre prive di senso.
Lontano da cinismo e vittimismo, Ivan Carozzi attraversa Milano con lo stupore ingenuo del provinciale, ma anche con il passo lungo di chi ha frequentato e ben compreso di cosa è fatta la felicità del mondo. Nulla di epico o di gloriosamente tragico, ma più semplicemente lo sguardo maturo di chi non bada più alle proprie carte per giocarsele.