La guerra in Yemen è una guerra globale che va al di là dei confini del paese più povero del Golfo: investe lo storico confronto tra Iran e Arabia Saudita ed è parte del più vasto conflitto internazionale in corso in Medio Oriente. Ed è una guerra alimentata dalle armi europee e statunitensi, come più volte ribadito da organizzazioni umanitarie e società civili occidentali.

Mercoledì e ieri lo hanno fatto decine di cittadini italiani e yemeniti insieme alla Rete NoWar che davanti al Ministero della Difesa e al Parlamento hanno chiesto l’applicazione della legge 185 che impone all’Italia l’embargo di armi contro Stati in conflitto. Ma che resta disattesa: armamenti made in Italy continuano ad arricchire il già pieno forziere saudita.

Ora questa globalità è palese: dopo il lancio di due razzi, caduti in acqua, verso il cacciatorpediniere Usa Mason nello stretto di Bab al-Mandeb, la Marina di Washington di stanza sul mar Rosso ha reagito. Missili da crociera hanno colpito tre postazioni radar controllate dagli Houthi.

Ad autorizzare la rappresaglia è stato il presidente Obama, colui che ha ampliato la strategia inaugurata dal predecessore Bush: i primi droni di una guerra mai dichiarata contro un altro paese mirarono ad al Qaeda nel 2002, ma è dal 2011 che si sono radicalmente intensificati, per essere elevati a modello di moderna guerra a distanza.

Ma l’assenza di marines non ha significato meno vittime: secondo l’Onu i droni Usa hanno provocato in Yemen più morti civili degli attentati di al Qaeda, oltre 100 a cui si aggiungono più di 300 vittime in missioni speciali. Nè ha significato meno potere per i qaedisti, allargatisi a macchia d’olio nel sud ovest del paese.

Quella di ieri – la prima azione diretta Usa nel conflitto tra Houthi e governo del presidente Hadi – segna l’ingresso ufficiale in una guerra che ha fatto 10mila morti, di cui il 60% civili. Di azioni indirette ce ne sono già da marzo 2015, ovvero assistenza a Riyadh sotto forma di consiglieri militari e informazioni di intelligence.

«Quei radar erano attivi durante precedenti attacchi e tentativi di attacco contro navi sul Mar Rosso», dice il Pentagono che localizza i target vicino al porto commerciale di Ras Isa, nel sud ovest del paese. Al portavoce del Dipartimento di Stato Usa, Peter Cook, è affidato l’avvertimento al movimento ribelle: «Gli Stati Uniti risponderanno in modo appropriato a qualsiasi altro attacco contro le proprie navi o al traffico commerciale».

Ma gli Houthi (considerati responsabili perché il lancio di missili sulla Mason era arrivato a poche ore dal massacro di 155 persone durante un funerale a Sana’a da parte dei jet di Riyadh), insistono: «Queste accuse sono infondate – dice un funzionario all’agenzia Saba – Tali affermazioni puntano a creare false giustificazioni per aumentare gli attacchi e coprire i continui crimini commessi dalla coalizione contro il popolo yemenita».

Poche ore dopo arrivava un’altra reazione, stavolta dall’Iran, lo Stato da più parti accusato di essere finanziatore e burattinaio del movimento Houthi: secondo l’agenzia stampa semi-statale iraniana Tasnim, Teheran ha annunciato ieri di aver dispiegato due cacciatorpedinieri della 34esima Flotta nel Golfo di Aden, in acque internazionali.

Navi da guerra iraniane e statunitensi, dunque, si trovano nelle stesse acque a pochissima distanza le une dalle altre. Una zona caldissima: da lì passano le petroliere che dal Golfo vanno a rifornire l’Europa. Per questo da subito la città costiera di Aden è entrata nel conflitto in prima linea.

Occupata dal movimento Houthi dopo Sana’a, presa nel settembre 2014, è stata tra le prime città ad assistere al dispiegamento pesante di truppe pro-governative. E nell’estate 2015 è tornata in mano al presidente Hadi che ne ha fatto la sua capitale provvisoria, grazie all’aiuto – dicono giornalisti e residenti – di cellule di al Qaeda.