La scommessa teorica intellettuale di Okwui Enwezor di cortocircuitare l’Angelo della Storia di Walter Benjamin con il Capitale di Marx sta segnando la 56/Ma Biennale d’arte di Venezia. La comunicazione del tema prescelto dal curatore dell’Esposizione sta agendo come un sasso gettato nello stagno dell’arte mondiale. Il messaggio, fortemente militante e politico, si è irradiato dall’Arena, nodale per la formula oratoriale adottata con la lettura integrale del testo marxista, all’Arsenale e a tutti i padiglioni nazionali, dentro e fuori dei Giardini fino alle centinaia di microeventi che animano la laguna veneta. E quasi tutti gli artisti e direttori e curatori chiamati a raccolta non si sono sottratti alla singolare sfida intellettuale declinando la loro partecipazione a questa road map socio-politico-culturale in modi assoluti, parziali o addirittura abusati o travisati, ma pur sempre tesi a un’interpretazione originale dei cambiamenti, avvertiti cruciali per molti destini, del mondo contemporaneo. Tutto questo ci sta in una Biennale così sorvegliata nei suoi movimenti più tellurici e, in apparenza, difficilmente catalogabili.

Quando gli slittamenti da un confine all’altro di linguaggio – dai fini ricicli multimediali al ritorno alle origini di pittura e pennello, passando per sofisticati site e time specific – sembrano confluire in un condiviso, ormai, sistema economico dell’arte mondiale.

In tale contesto è parsa una lettura originale proprio quell’Albanian Trilogy: A Series of Devious Stratagems di Armando Lulaj, intellettuale albanese multitasking: scrittore, drammaturgo e videomaker originario di Tirana, dove è nato nel 1980. In altra occasione per gli artisti provenienti dalle zone balcaniche colpite a ridosso degli anni novanta da guerre e conflitti e da fenomeni migratori, purtroppo ora a esclusivo appannaggio di altre popolazioni, e soprattutto per quelli nati tra la metà degli anni settanta e il decennio successivo del secolo scorso, si è parlato di «generazione parallela».

Anche Lulaj non si scosta per le caratteristiche del suo lavoro dal comune sentire di un’intera genia di artisti, alcuni peraltro presenti a Venezia. Il suo lavoro, quinquennale, scelto a rappresentare il Padiglione dell’Albania e la cui ultima parte realizzata proprio per la partecipazione alla Biennale, è stato costantemente seguito dal curatore Marco Scotini a partire dal suo processo di selezione, attuato attraverso un’open call internazionale, messa sotto l’egida del Ministero della Cultura e che contava al proprio interno personalità come Boris Groys, Adrian Paci e Alberto Heta.

I tre film di Lulaj, insieme con bizzarri manufatti, uno scheletro di balena, alcune misteriose foto di bambini, cercano di narrare – e non a caso la traduzione del sottotitolo del suo intervento è «una serie di stratagemmi equivoci» – in una sorta di gorgo archeologico visivo «gli spettri» della storia recente dei Balcani, il suo controverso rapporto con l’Europa occidentale e la conservazione analitica, peraltro sempre più labile, di cosa è stato il suo paese durante gli anni del socialismo di Hoxha.