Tra volontà e necessità di cambiare, a volte si insinua la terza via, quella che viaggia sull’orlo di una crisi di nervi. Le grandi aziende della moda sono nervose, di questi tempi. Succede nelle epoche di crisi anche a chi la crisi proprio non la sente. Eppure, tra cambi ai vertici amministrativi e creativi alcuni marchi della moda internazionale, grandi e piccoli, danno l’idea di una perdita di orientamento che potrebbe avere conseguenze gravissime. I segnali sono tanti, alcuni evidenti, altri sottotraccia.
È di tre giorni fa la notizia che dopo anni di inutili tentativi per far nascere una linea di abbigliamento credibile che portasse lo stile Hermès oltre le iconiche borsette Kelly e Birkin, la casa francese ha annunciato l’ennesimo cambio alla direzione creativa dell’abbigliamento femminile. Dopo Martin Margiela e Jean Paul Gaultier, quattro anni fa Hermès aveva scelto Christophe Lemaire per disegnare un abbigliamento di luxury-sport che non è mai decollato. Una scelta che ha sempre lasciato un punto interrogativo grande quanto il gigantesco storico negozio della firma in rue Saint-Honoré e che tre giorni fa ha avuto la conferma con il passaggio di testimone a Nadège Vanhee-Cybulski. Eppure, Hermès ha dichiarato che nel 2013 le vendite dei suoi prodotti sono aumentate di circa l’8% rispetto all’anno precedente con una cifra record di sell-out di 3,75 miliardi di euro.
Altro segnale recente arriva da Burberry. L’assemblea generale degli azionisti di Burberry ha bocciato il pacchetto delle retribuzioni di Christopher Bailey, alla guida creativa del marchio e, dal maggio 2013, anche Amministratore Delegato (doppia carica mai vista in un’azienda di moda non familiare). Per quanto contrario, il voto dell’assemblea non è però vincolante e Bailey ha salvato il suo compenso complessivo di 13 milioni di euro (tredici milioni) per tutto il 2014. Una cifra enorme che comprende salario, assicurazione, azioni e gratifiche. La replica del presidente della società, John Peace, dice che la retribuzione di Bailey è in linea con quella di altri big del settore. Gli esempi di questa bufera di nervi che si sta abbattendo sulla moda sono ancora tanti. Per esempio, negli Usa, il marchio American Apparel sta diventando un caso di guerra tra manager e proprietà. In Francia, Sebastian Suhl, Ceo di Givenchy da due anni, è già partito alla volta di Marc Jacobs. In Italia il gossip informato parla di una sostituzione imminente ai vertici amministrativi e creativi di Gucci. Quali saranno gli effetti?
Nel 1960, dopo due anni alla guida creativa di Christian Dior, lo stato francese costrinse Yves Saint Laurent ad arruolarsi per la guerra di Algeria.
I dirigenti di Dior lo licenziarono e il mondo della moda si indispettì a tal punto che non permise mai al suo successore, Marc Bohan, di diventare una star per tutti i trent’anni che guidò il marchio, mentre Yves con il proprio marchio divenne il genio che sappiamo. Oggi, i terremoti servono a poco. A vincere è solo il mercato.

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Per ragioni di spazio, la rubrica ManiFashion, in edicola ogni sabato, è stata posticipata a oggi. Ce ne scusiamo con i lettori e con l’autore. La prossima ManiFashion sarà sulle nostre pagine regolarmente, sabato 2 agosto.