Dopo molto tempo dall’uscita e, soprattutto, dopo mille critiche negative ricevute da amici che non lo avevano amato un lunedì di luglio a caso, dopo un pranzo leggero di prodotti dell’orto, mi sono approcciata a vedere La comune, pellicola del regista danese Tomas Vinterberg (per capirci quello di «Festen»). La tematica anni Settanta mi aveva attratto da subito ma per un motivo o per l’altro non ero mai riuscita ad andare a vederlo. Se non erro la protagonista femminile Trine Dyrholm ha vinto un premio come migliore interpretazione all’ultimo festival di Berlino: prova attoriale in effetti forte. Nel suo complesso non è un film felice: lineare e prevedibile nonostante una smaccata sincerità, parlato e scritto nei suoi aspetti più didascalici.

Ma – non posso oltremodo tacerlo – mi ha acchiappato: sarà perché sono figlia di quell’epoca, nel bene e nel male; perché ricordo quel tipo di approccio freak alla vita (che poi, ad un certo punto, ti si rivoltava contro ed erano problemi seri); perché da figlia unica, nell’adolescenza, ho visto cose che forse avrei preferito non vedere. Questa prospettiva infatti è quella che ho trovato efficace, la rapida conseguenza di azione e reazione nei gesti di Freja (interpretata dalla capelluta Martha Sofie Wallstrøm Hansen) in situazioni di difficoltà familiare: è la figlia della coppia che, durante la convivenza con altri, scoppia.

Ho una particolare predilezione per le storie che concatenano le vite delle persone rispettivamente alle scelte delle strade da percorrere: se a Copenhagen oggi Sasha va nel pub e incontra Michelone, probabilmente tra tre anni Sara avrà un figlio con il fratello di Sasha a Napoli e così via, lasciando libera l’immaginazione e le tessere del domino. Certo, negli anni Novanta ho amato da pazzi Kieślowski, re delle coincidenze, come Kundera de L’insostenibile leggerezza dell’essere e, banalissimamente, il «Girotondo» di Schnitzler. Non mi stanco mai di pensare che ogni scelta, ogni deviazione dalla strada maestra, ogni interferenza non prevista porti da una parte nuova, ad un obiettivo che non si era programmato in precedenza, ad una casa che magari non è la tua ma lo potrebbe diventare. Se sia più o meno vero non me

lo chiedo neppure, per un po’ mi accontento di sognarlo. Il tratto catartico della biblica frase «le colpe dei padri ricadono sui figli» non mi corrisponde: credo nell’evoluzione, nella rinascita, nella possibilità infinita di migliorarsi. I modelli familiari resistono ad anni di terapia analitica, meditazioni e mediazioni, fughe dall’altra parte del mondo, viaggi, stordimenti e ritrovamenti della memoria.

L’ambiente libero degli anni Settanta, nei costumi e nelle idee, per una bambina come me, conteneva inevitabilmente il rovescio della medaglia: il venire a conoscenza troppo presto di alcune cose comporta la perdita di una parte dell’infanzia. Non è una cosa a cui si fa caso da piccoli, allora si cresce in fretta e pace. Senza biasimo, senza rimpianti, senza giudizi né desideri di vendetta. Con qualche paura in più, con troppa consapevolezza dei limiti degli adulti, con una voglia acuta di regole. Che potesse essere stata anche una perdita l’ho compreso solo diventando madre, non prima. Prima era solo la mia vita.

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