Il presidente degli Usa Barack Obama, ha presenziato per la prima volta come ospite d’onore alla tradizionale parata militare della 66esima edizione della Festa della Repubblica indiana, rispondendo all’invito esteso mesi fa dall’omologo indiano e «amico» Narendra Modi.

La visita ha catalizzato l’attenzione dei media locali, impegnati in una narrazione dell’evento storico declinata alle necessità mediatiche di NaMo; si tratta di un apparato di una potenza comunicativa devastante, paragonato all’epoca di un primo ministro Manmohan Singh serio e serioso, rispettato e stimato, ma anagraficamente obsoleto nell’Era della Comunicazione odierna.

Al contrario, Modi ha dato nuovamente prova delle sue indubbie abilità mediatiche, in un continuo sfoggio di immagini evocative di un rapporto bilaterale che sfonda nella «bromanship», come si dice, nel rapporto «cool» che intercorrerebbe tra NaMo e «l’amico Barack». Sin dall’atterraggio dell’Air Force One all’aeroporto militare di New Delhi, Modi ha insistito in una sistematica rottura del protocollo: abbracci e baci sotto le scalette dell’aereo presidenziale; Modi che serve il té a Barack Obama in un amarcord telefonato delle sue umili origini da venditore di chai; Modi che ride sguaiato alle battute di circostanza di Obama sulle poche ore di sonno dei leader.

Episodi troppo innaturali – considerando la fama di politico austero e marziale che contraddistingue il primo ministro cresciuto nelle fila della formazione parafascista hindu della Rashtriya Swayamsevak Sangh – che lasciano intravedere lo sforzo malcelato di un maquillage deciso a tavolino, nella speranza che paghi sia sul lungo termine – attirando nuovi investitori nella crociata del Make in India, «venite qui a produrre» – che nel brevissimo: tra meno di due settimane si vota per il governo locale di New Delhi e quelle immagini da fraternità universitaria fuori tempo massimo, c’è da scommetterci, valgono più di centinaia di comizi.

L’espediente della parata – noiosissima, tenutasi sotto la pioggerellina di una New Delhi militarizzata per scongiurare il pericolo di attentati paventato dalle agenzie – ha creato i presupposti per aggiornare lo stato dell’arte dei rapporti tra Usa e India a distanza di pochi mesi dalla storica visita di Modi in America.

E le somme da tirare sono ancora piuttosto fumose.

I due leader hanno parlato concretamente d’affari solo nella serata di ieri, a conclusione del summit di amministratori delegati indiani e statunitensi ospitato presso l’hotel Taj della capitale. La «vision» di Modi e Obama rimane invariata, infarcita di promesse e previsioni che vedranno i due paesi sempre più impegnati in uno sviluppo «green», inclusivo e sostenibile, animato da partnership commerciali ed economiche a partire da un accordo per l’energia nucleare sul quale India e Usa lavorano da oltre 10 anni. Delhi vuole realizzare nuove centrali assieme a compagnie americane, ma deve chiarire i contorni di responsabilità legale – e conseguenti richieste di risarcimento – in caso di incidenti: condivise tra operatori locali e fornitori stranieri fino ad oggi, ora pare ci sia spazio per una tutela maggiore che metterebbe al riparo le aziende Usa.

Modi e Obama la danno come cosa fatta, senza però aver ancora spiegato nel dettaglio quale sia la soluzione condivisa raggiunta, si dice, durante il té di domenica pomeriggio. I contorni epici del discorso – in inglese – del «primo premier nato nell’India liberata» Narendra Modi hanno rafforzato l’immagine di un’India che vuole essere pietra angolare del nuovo mondo interdipendente, prosperando «saath saath», a braccetto, col partner americano.

Ma Obama, rivolgendosi ai big di India Inc. presenti, ha snocciolato le cifre dell’impegno a stelle e strisce nel subcontinente: 1 miliardo di dollari di finanziamenti per stimolare l’export Usa verso l’India; 2 miliardi di dollari di investimenti in energie rinnovabili; tecnologia Usa per realizzare tre «smart city» in territorio indiano. Sommando tutto quanto, fanno 4 miliardi di dollari in due anni: la Cina, qualche mese fa, ne aveva promessi 20 in cinque anni; il Giappone, 35 in cinque anni.

La somma esigua messa sul piatto da Obama dovrebbe fare da sassolino lanciato nello stagno, in previsione che le politiche ultracapitaliste messe in atto da Modi – abbattere gli ostacoli burocratici e legali per agevolare l’arrivo di investimenti diretti stranieri, a discapito della tutela ambientale – possano sprigionare l’enorme potenziale ancora intonso.

È vero, ha chiarito Obama, che l’interscambio tra Usa e India ha raggiunto la cifra record di 100 miliardi di dollari, ma è vero anche che quello con la Cina ammonta a cinque volte tanto. Di tutto l’import americano, solo il 2 per cento proviene dall’India, mentre le esportazioni alla volta di New Delhi coprono un minuscolo 1 per cento nel bilancio totale di Washington.

La strada da fare è ancora lunga, ma in soli otto mesi di governo Modi è riuscito a mettere l’India al centro di un sistema multipolare pieno di potenziali investitori nella scommessa della crescita indiana, senza precludersi alcuna possibilità di collaborazione. Tanti «amici», tutti partner, nessun alleato.