A terra, davanti alla sedia vuota, un piccolo tamburo. Accanto, appoggiato alla parete di fondo, un tamburello di grandi dimensioni. Mohammad Reza Mortazavi sale sulla pedana, si siede, un cenno della testa per salutare, qualche tocco sul tamburo e sul tamburello per saggiare la resa del microfono. A Torino, nello spazio dell’Arena Piemonte, Mortazavi lo ha portato il Folk Club, cartellone denso di artisti da noi sconosciuti. Reza mette in grembo il tombak, questo il nome del tamburo tradizionale persiano, una quarantina di centimetri di altezza, ventotto di diametro, pelle tesa su un guscio ricavato da un unico blocco di legno a forma di calice. Appoggia le mani sulla pelle tesa, inizia a suonare. Pochi secondi, e sulla faccia del pubblico si dipinge lo stupore. Pochi secondi ancora, e allo stupore si aggiunge l’ammirazione. Qualcuno sussurra «Non ho mai ascoltato nulla di simile», qualcuno esprime in un paradosso, «Deve avere altre due mani nascoste da qualche parte», tutta la sua incredulità.

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Il tombak di Mortazavi non è una, ma cento voci, cui danno forza non uno, ma cento ritmi; è un fiume di suoni che sanno farsi liquidi, secchi, gravi, acuti; che si dissolvono nella scansione dei tempi, a tratti di una rapidità così vertiginosa da non pensarla possibile. Sul tombak, non dieci, ma cento dita si inseguono e dialogano per creare musica che non puoi né cantare né ricordare, e però capace di rovesciarti dentro un cumulo di emozioni. L’applauso del pubblico, lungo e convinto, sembra voler stemperare la forza di un brano ascoltato in un silenzio quasi religioso. Dura un’ora e mezzo la performance di Mortazavi: trance, ipnosi, incantesimo che si ripropongono nelle sonorità del daf, il tamburo a cornice con piccoli cembali di metallo sull’anello. Tombak e daf, strumenti iraniani antichi di secoli, che hanno trovato in questo artista non ancora quarantenne un interprete unico e innovativo.

Il flashback del concerto torinese si riaffaccia nelle quattro. lunghe, tracce di Transformation (Flowfish/Brokensilence, per l’acquisto moremo.de), ultimo disco di Mohammad Reza, fresco di uscita, ulteriore evoluzione di un lavoro cominciato nel 2003 con l’album Pulse. L’intervista dopo il concerto racconta il cammino e il pensiero del percussionista, nato a Isfahan e dal Duemila residente a Berlino. Reza inizia a frequentare il tombak a sei anni, a dieci vince la competizione nazionale dedicata a questo strumento, a venti è già considerato da critici e cultori della musica tradizionale il miglior performer mondiale di tombak. Il suo rapporto con la Germania nasce nel Duemila, da un concerto a Monaco, cui seguono numerose date in Europa. Nel 2003 riceve il Ruth, riconoscimento tedesco assegnato agli artisti emergenti della World Music. È del 2010, il concerto trionfale al Philarmonie Auditorium di Berlino e l’inizio della collaborazione con l’etichetta discografica Flowfish Music. La risposta alla prima domanda, che definizione daresti della tua musica, passa attraverso una sottile distinzione «Ciò che io provo a suonare scaturisce dal profondo di me stesso, non è semplicemente suono in quanto tale, frutto di una tecnica, di ore e ore di prove. Mi affido molto all’istinto, lo assecondo, lo libero. Il mio ultimo disco è esattamente questo».

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Perché, nella musica colta iraniana, hai scelto le percussioni? 

Il tombak e il daf possiedono un’incredibile capacità espressiva, trasmettono degli impulsi che bisogna saper fiutare. Seguendoli, si arriva a non considerare la misura del tempo. Il tempo è un metronomo, un sistema. L’impulso sfugge a una regola predeterminata, ed è nell’impulso che mi riconosco. Transformation esprime anche questo.

Quanto pesa la tradizione nel tuo repertorio, e quanto, invece, ti discosti da essa?

La tradizione è il mio punto di partenza, a cominciare dagli strumenti che uso. Delle sue tecniche ho adottato quelle che hanno un significato più semplice e profondo, e su di esse ho innestato le mie tecniche di scrittura e di esecuzione. Vorrei aggiungere, poi, che secondo me non esiste un taglio netto tra vecchio e nuovo. Nuovo è ciò che suona attuale. La tradizione può risultare attuale, e dunque suonare nuova.

Difficile, per il comune ascoltatore, pensare che tu componga i tuoi pezzi. Si è maggiormente portati a ritenerli magnifiche improvvisazioni…

I miei brani hanno una struttura compositiva che al momento dell’esecuzione acquista qualcosa di nuovo, uscendo da limiti e restrizioni. Io non compongo a tavolino. Mentre suono, divento un tutt’uno con i miei strumenti, e allora le emozioni mi portano a creare.

La musica degli artisti indipendenti iraniani è diventata negli ultimi anni un coro di voci contro il regime. Ti riconosci in questa musica?

Non ho mai scritto testi, e dunque non ho mai avuto a che fare con la censura. Sono emigrato a Berlino perché nel contesto sociale e culturale iraniano mi sentivo isolato, senza possibilità di confrontarmi. Dovevo uscirne. La musica vera ha il compito di costruire qualcosa dentro chi ascolta. Scrivere musica vera in Iran è molto difficile, perché significa entrare in conflitto con i limiti che ti vengono imposti. Oltrepassarli comporta sofferenza e allo stesso tempo stimola, incita a farlo. Dentro e fuori i confini del Paese. (traduzione dal tedesco dell’intervista, Gabriele Della Porta)