Il congresso annuale del Partito laburista, che si apre oggi a Liverpool, dovrebbe confermare quello che ci si aspetta ormai da mesi: il secondo avvento di Jeremy Corbyn, il leader eletto a furor d’iscritti e clamorosamente sfiduciato da una consistente fetta di deputati subito dopo la deflagrazione Brexit. Le aspettative sono che rivinca la leadership almeno con lo stesso margine di un anno fa. Per il suo rivale, l’ex-Pr della Pfizer Owen Smith, esponente parvenu della cosiddetta «soft-left» gettato nella mischia dal largo fronte costituitosi tra i tecnocrati centristi contro il segretario dopo il ritiro della candidatura di Angela Eagle, le chance di farcela paiono esili. E se il suo Cv candeggiato (non votò a favore dell’invasione dell’Iraq, a differenza di Eagle, perché all’epoca non era ancora deputato) non gli basterà, è anche per via di una serie di uscite a dir poco imbarazzanti durante la campagna.

La prima venuta di Corbyn, esattamente un anno fa, aveva mandato precipitosamente in frantumi il drôle de guerre che si era stabilito nei laburisti fra la maggioranza parlamentare, managerial-tecnocratica e d’ispirazione blairista, e la base degli iscritti. Ma l’ammutinamento tremebondo dei deputati contro il neoleader, scatenato dal panico post-Brexit, sortì un effetto opposto a quello sperato, facendo crescere un muro di circa 600.000 tessere proprio attorno alla figura di Corbyn, irriducibile garante della sopravvivenza dell’identità socialista del partito (attualmente il più grande d’Europa).

Da lì è partita una serie di tentativi sgangherati di sgambettare la leadership, culminati nel putsch fallito e nel tentativo di arginare il flusso di preferenze pro-Corbyn con l’alterazione del meccanismo elettivo da parte del comitato esecutivo nazionale del partito, il Nec, che in una tempestosa riunione lo scorso 13 luglio aveva introdotto un limite cronologico, il 12 gennaio, all’eleggibilità al voto. Impedendolo così ai 130.000 neo-membri accorsi a iscriversi subito dopo la sfiducia al segretario. L’estate appena conclusa ha visto la macchina elettorale di Momentum, il movimento nato per dare voce a questo bisogno di sinistra reale in una compagine monopolizzata dal centro liberal-liberista, funzionare a pieno regime tra media social e tradizionali: 52 eventi con Corbyn protagonista, 82 milioni di tweet, mezzo milione tra iscritti e simpatizzanti raggiunti telefonicamente, e circa 300.000 sterline raccolte in donazioni da parte di circa 19.000 persone. Ora la situazione debitoria è stata appianata, e i conti del partito sono in nero, cosa non da poco in vista del prosciugamento delle donazioni da parte del grande business su cui contava ampiamente da quando, all’inizio degli anni Novanta, era entrato a far parte dell’establishment.

Lo stillicidio di attacchi non si è fatto attendere: solo in quest’ultima settimana due reportage di Bbc e Channel 4 agitavano lo spauracchio di un partito infiltrato da sanguinari trotzkisti pronti a fare del Plp una nuova Ekaterinburg; il sindaco di Londra Sadiq Khan che annunciava il suo sostegno a Smith; un grido di dolore di David Miliband sul New Statesman e perfino la riesumazione del veterano Neil Kinnock.

Se riconfermato, Corbyn blinderà definitivamente il suo mandato. Ora deve lavorare duro su uno dei tropi che gli avversari sgranano come un rosario: quello dell’ineleggibilità del partito sotto l’attuale leadership. Il Labour si trova 11 punti dietro ai Tories; se rieletto, Corbyn dovrà affrontare il problema di una sessantina di ruoli da riempire nelle frontbenches a fronte della diserzione di massa dei deputati. Il segretario ha già più volte reiterato che intende «ricominciare da zero» e ha parlato di ramoscelli di ulivo da offrire a chi deciderà di tornare nei ranghi. Meno conciliatori sono i suoi due principali alleati, John McDonnell e il leader sindacale Len McCluskey, che agitano lo spettro di deselezione per gli ammutinati, molti dei quali hanno annunciato una linea di «coesistenza» (passiva, verrebbe da aggiungere) con il leader dai banchi delle retrovie.

In ogni caso, la tanto paventata scissione non pare ancora all’orizzonte: ai ribelli mancano sia i numeri, sia il peso politico.