Si è concluso domenica notte (le 16 locali a Vancouver) il mondiale femminile di calcio più atteso. La settima edizione del torneo iridato femminile ha confermato una serie di sensazioni che nel corso delle passate edizioni avevano già fatto registrare indici in costante rialzo. Marketing del settore tecnico sportivo in ascesa, un numero altissimo di telespettatori collegati da tutto il pianeta, ma soprattutto la conferma del crescente bagaglio tecnico e spettacolare messo in campo dalle giocatrici delle 24 selezioni nazionali.

Dopo la consacrazione di Canada 2015, dopo l’enorme indicizzazione del torneo sui social e il boom registrato dall’hashtag ufficiale della competizione (#Fifawwc), è il mondo intero a dichiarare con entusiasmo che la Coppa del Mondo di calcio femminile è un evento di massa.

La finale

Facciamo però un passo indietro ed entriamo nella splendida cornice di pubblico offerta dal Bc Place Stadium di Vancouver: oltre 59mila spettatori a gremire le tribune, in attesa di uno spettacolo memorabile regalato dalle formazioni di Stati Uniti e Giappone. Una sorta di clàsico del calcio femminile: ad affrontarsi sul sintetico della città canadese c’erano infatti le nazionali che già 4 anni fa si erano sfidate per il gradino più alto del mondiale ospitato nell’estate 2011 dalla Germania e che registrò la vittoria della compagine nipponica dopo la lotteria dei rigori.

La “vendetta” a stelle e strisce, che ha confermato i pronostici non solo della vigilia della finale ma anche dell’inizio della competizione, è stata servita con un roboante 5-2 grazie anche alla grande performance della 32enne centrocampista Carli Lloyd, autrice di 3 gol – l’ultimo dei quali con un pallonetto di rara bellezza, precisione e potenza che, calciato dalla linea di centrocampo, ha sorpreso l’estremo difensore giapponese. Pronti e via, dopo un quarto d’ora la squadra americana era già sul 4-0, complice anche la “Waterloo tattica” della squadra asiatica che per l’intera prima frazione di gioco non è sembrata essere scesa in campo.

È il terzo titolo per le giocatrici degli States, che alla vittoria iridata possono anche aggiungere la ribalta e la consacrazione delle stelle più splendenti del proprio firmamento: Carli Lloyd e Abby Wambach.

Fuorigioco

I nomi delle due stelle americane hanno fatto il giro del mondo e ancora oggi, a 48 ore di distanza, continuano a popolare l’etere e le pagine dei quotidiani.

L’entusiasta commento di Barack Obama, che con un tweet indirizzato alla migliore in campo ha confermato come da tempo negli Stati Uniti ci sia un progetto di sviluppo mirato e di investimento (sociale e finanziario) sul calcio femminile.

Una sensazione confermata anche dalla notizia, uscita 24 ore prima della finale, che anche il vice-presidente americano Joe Biden avrebbe assistito al match.

Altrettanto popolare è stata in questi giorni la vicenda di Abby Wambach, attaccante e capitana della nazionale americana, che al termine della partita è stata immortalata mentre baciava sua moglie, Sara Huffman, seduta tra gli spalti con indosso la sua maglietta. Un gesto normale, denso di bellezza e intimità, che però è stato sbattuto sulle pagine dei giornali come puro gossip da paparazzi.

La vicenda di Abby e Sara è la storia di migliaia di coppie omosessuali americane e non solo, la storia di due ragazze che si sono sposate altrove (nel loro caso, due anni fa alle Hawaii) e che hanno visto riconosciuta la propria unione solo recentemente.

Venerdì scorso, infatti, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha stabilito che negare il diritto di matrimonio a persone dello stesso sesso è un principio in aperta contraddizione con il XIV emendamento, che garantisce l’eguaglianza di trattamento e protezione e che fu utilizzato dalla stessa Corte Suprema come base per l’eliminazione della segregazione razziale in un pronunciamento storico del 1954 (Brown vs. Board of Education of Topeka).

Così, mentre due lesbiche diventavano simbolo della realizzazione di sogni privati e professionali, nel Belpaese delle «quattro lesbiche» (a cui non si possono dare finanziamenti per giocare a calcio) il Mondiale femminile tornava a rubare qualche trafiletto grazie al bacio di Vancouver.

Una triste parabola che purtroppo ha riguardato un po’ tutta la stampa di casa nostra: dal sito di Repubblica che poneva l’accento sulle «bellezze mondiali», con una galleria fotografica che indugiava sulle curve delle giocatrici più che sulle loro giocate in campo, all’articolo de Il Tempo sul «bacio saffico», fino ad altre decine di testate che hanno ripercorso la storia dei baci più famosi dello sport mondiale.

Una tristezza incommensurabile non tanto per l’inadeguatezza di certo giornalismo, quanto perché l’Italia per l’ennesima volta ha perso un’occasione (mondiale) per rilanciare il suo sport e le sue politiche di lotta alla discriminazione e al sessismo. Un’altalena smemorata che ormai spopola nel nostro paese, dove un giorno si formano eserciti di volontari per i diritti civili e la fine delle disparità tra sessi, e il giorno dopo non si ha la fermezza di condannare (e poi riformare) un sistema sportivo razzista e discriminatorio, incancrenito nelle sue istituzioni di vertice e nelle pratiche clientelari che lì si sono cristallizzate.

Mentre il mondo scopre la bellezza (quella vera) del calcio femminile, che ha registrato oltre 500 milioni di telespettatori sul pianeta, in Italia il sistema calcio annaspa tra scandali e scommesse, tra bilanci in rosso e speculazioni di borsa.

Oltre il risultato

Il mondiale di Canada 2015, fortunatamente, non verrà ricordato solo per il bacio gay della finale. Fortunatamente perché sono molti i dati da cui ripartire, per un settore che si apre al grande pubblico e mira nel giro di 15 anni a divenire una delle 5 manifestazioni sportive più seguite in assoluto. 55 miliardi di euro, oltre 120 paesi collegati e una eco che in patria si è sentito con forza.

Non solo Stati Uniti e Giappone, ma anche Germania e Inghilterra, dove l’avventura mondiale è diventata un’attrazione virale. Pensate alle leonesse di Mark Sampson, eliminate da un’autorete nella semifinale con il Giappone e accolte dal premier Cameron (che le ha definite «fantastiche») come eroine nazionali; o alla federazione tedesca, che vanta ben 5486 club e oltre 250mila giocatrici (come sostiene Roberta Carlini nel suo articolo «Centomila euro. Il gender gap del pallone», Ingenere, 2 luglio 2015) a fronte di un corrispettivo italiano che conta 365 club e 1300 tesserate.

L’unico auspicio è che per vedere le nostre ragazze protagoniste non si debbano attendere altri 4 anni: indipendentemente da come andrebbe sul campo la prossima avventura mondiale, sarebbe già una sconfitta per lo sport italiano.