Quest’anno buona parte della «quota informativa» su Festival e avvenimenti jazz nell’Italia settentrionale se l’è portata via il Festival di Torino, e qualcosa anche la Milano 2015 dell’Expo. Dove concorrono grossi capitali di sponsorizzazione nasce anche spesso buona musica con contorno di iniziative collaterali ben studiate, anche se non necessariamente. Genova, terzo vertice di quello che una volta fu il «triangolo industriale d’Italia» vive uno strano momento dal punto di vista culturale: da una parte c’è la città di nuovo frequentata da molti turisti, e l’attività del Palazzo Ducale diventato Fondazione per la cultura che gira a pieno regime, col volano delle grandi mostre e miriadi di piccole iniziative a seguire, dall’altra una marea di settori culturali che fanno fatica a trovare integrazione in una rete di valorizzazione dell’offerta culturale totale.

Ad esempio il Gezmataz Festival nello splendido porto antico restaurato tanti anni fa da Renzo Pisano: dodici anni di presenza, workshop musicali e fotografici con docenti d’eccellenza, eppure la sensazione netta che l’inserimento in un circuito di promozione potrebbe portare grandi numeri e ottima interazione con il turismo. Grandi numeri di pubblico, perché la grande musica il direttore artistico del festival Marco Tindiglia, musicista e docente di jazz, la garantisce ogni volta. Quest’anno ha portato in apertura del Festival il 22 il dirompente progetto Monk’n’ Roll ideato alcuni anni fa da Francesco Bearzatti, sassofonista tra i più brillanti della scena. Mon’k’ Roll è, nell’energia, quasi uno slancio punk jazz, e il meccanismo apparentemente macchinoso di montare assieme classici sghembi dello strano, misterioso maestro del jazz moderno e reperti da trovarobato rock (Pink Floyd, Queen, Acdc, e vi citando) funziona alla perfezione. Con il sassofono filtrato che diventa una chitarra elettrica, il basso di Danilo Gallo suonato a plettro come quello di Lemmy dei Motorhead, e la sorprendente batteria di Antonio Fusco chiamato a sostituire per la prima volta Zeno Rossi, un maestro di inventiva e di adattabilità. Finale da concerto rock, tutti in piedi sotto il palco.

Atmosfera quasi simile per la prima del The New Standards Trio capitanato dal pianista e organista Jamie Saft la sera successiva, dedicata alle produzioni discografiche innovative della RareNoise Records con base a Londra. Saft è uno che arriva dal giro newyorchese ereticamente jazz di John Zorn, e si sente. Si fa accompagnare (si fa per dire) da maestri assoluti quali Steve Swallow, forse il miglior bassita elettrico al mondo, e Bobby Previte alla batteria – e ne ricava un jazz di calore e intensità radiante, che sfiora temperature gospel, trova accenti sapidamente bluesy e soul, e riesce a trasformare in uno standard anche Fool for you Stockings dei ZZ Top, il più tamarro dei gruppi rock sudisti americani.

Dopo due serate con questa energia, ritorno alla classica modernità con l’eccellente bassista (e vocalist) Avishai Cohen, che sconta nella vita il torto di essere omonimo di un grande trombettista jazz. Il bassista israeliano con suo trio mette in mostra un suono in staccato potente e turgido, mentre le composizioni lasciano filtrare amori barocchi, latin jazz, e atmosfere quasi minimaliste. Il Gezmataz è durato fin al 26, data in cui hanno suonato gli allievi dei workshop. La serra prima hanno suonato i docenti, che oggi sono un gruppo a tutto tondo di signori del jazz: Andy Sheppard ai sax, Marco Tindiglia alla chitarra, Masa Kamaguchi al contrabbasso, Michele Rabbia a percussioni ed elettronica. Hanno appena inciso un disco, Sounds From The Harbor, che è un chiaro omaggio al Porto Antico di Genova: e del Porto ha i profumi, i suoni registrati, le voci. Jazz atmosferico, lirico e pieno di salutari silenzi. Ma in concerto il supergruppo ha voluto suonare anche una straziata Lonely Woman, per ricordare Ornette Coleman che proprio a Gezmataz offrì uno dei suo ultimi, commoventi concerti.