Roberto Morassut è stato assessore della Roma di Veltroni ed è autore di due libri, Malaroma e Roma Capitale 2.0 nei quali ha raccontato, dal suo punto di vista di dirigente del Pd ma anche amministratore di lungo corso, i mali della sua città, e quelli della sua parte, ben prima che l’inchiesta Mafia Capitale fosse nota. Inchiesta che va avanti: due giorni fa l’avviso di garanzia a un collaboratore stretto del presidente della Regione Lazio Zingaretti, poi l’indagine su un assessore di punta del sindaco Marino, entrambi del Pd.

Morassut, ferma restando l’innocenza di tutti fino a sentenza definitiva, a Roma e nel Lazio c’è ancora molto da scoprire sul coinvolgimento del Pd negli illeciti nell’amministrazione della cosa pubblica?

Mafia Capitale non è solo un’inchiesta giudiziaria. È il racconto documentato della destra romana al potere a Roma e nel Lazio tra il 2008 ed il 2013. Per troppo tempo abbiamo sottovalutato questo grumo di fascismo criminale che si era infiltrato nelle istituzioni. Abbiamo opposto palliativi scivolando in un consociativismo che se non ha sposato il male, certo lo ha subito. Non dovevamo sedere nei Cda di quelle aziende. È questo il giudizio politico che dobbiamo condividere se vogliamo uscirne. Detto questo, tutti gli amministratori del Pd toccati dall’indagine hanno rinunciato alle cariche con responsabilità. In particolare Maurizio Venafro che conosco da 35 anni: so che è una persona per bene e che lo dimostrerà. E su di noi tengo a dire una cosa: a Roma fino al 2008 la mafia è stata combattuta. I suoi beni confiscati e restituiti ai cittadini. Erano gli anni in cui i cittadini entravano a Villa Osio trasformata in Casa del jazz. Troppo spesso ho sentito Marino proporsi come il «primo sindaco» che si oppone ai poteri forti. È una visione ingiusta e autolesionista. O tutti resteranno travolti dalla rabbia indistinta contro la politica.

Ignazio Marino ha annunciato che vuole restare sindaco fino al 2023. Intanto però arriva l’indagine su uno dei suoi assessori più importanti, Guido Improta. Il malumore dello stesso Pd contro il sindaco è solo silenziato. Marino ha la spinta propulsiva per andare avanti?

In questa storia c’è un grande assente, un vuoto incolmabile come si dice nei funerali. E’ la politica. Una nuova percezione di Roma, dei suoi epocali mutamenti. La forza di un’amministrazione non viene dai numeretti del consiglio comunale ma dalla capacità di interpretare i sentimenti dell’Urbe. Questa fu la forza di Petroselli e poi di Rutelli e di Veltroni. Ed era una forza politica non solitaria. Perché era parte di una cultura politica. Il Pd se vuole aiutare il suo sindaco deve fare politica. Ad amministrare ci pensa chi sta in Campidoglio. A chi svolge una funzione di partito non deve più di tanto interessare chi fa l’amministratore di questa o quella azienda. Ma come coordinare la lotta contro l’emergenza abitativa o come inventare nuove azioni di sussidiarietà per assistere chi non ce la fa.

Il Pd romano è «pericoloso e dannoso», è l’analisi di Fabrizio Barca. Intanto il commissario Orfini andrà avanti almeno fino a fine anno. Va nella direzione giusta?

Barca ha detto cose visibili da anni. Ho ritrovato tanti articoli in cui dicevo queste cose nel 2009. Mi fu detto che gettavo fango sul mio partito. E ho pagato un prezzo per un certo isolamento politico. Dire «pericoloso» è hard ma anche generico. Ma conta la sostanza. Condivisa la radiografia, discutiamo della cura. O procediamo verso un partito che torna illusoriamente ad un principio di disciplina, centrato sugli iscritti e in fin dei conti burocratico, e questa mi pare la linea di Orfini. Oppure apriamo il partito e non rinunciamo a valorizzare gli elettori, senza paura del pluralismo delle idee ma sapendo difenderci da agenti corruttori e dal tribalismo. C’è un posto per parlarne?

Non c’è? Chiede di accelerare il congresso?

Facciamo una bella cosa: andiamocene per tre giorni in un posto piacevole. Facciamo parlare i tanti iscritti sani e liberi che ancora abbiamo, ritroviamo il gusto della comunità e raccogliamo questa discussione in una griglia di cose da fare. Sarebbe un atto sovversivo: ridare la parola alle persone. Il congresso si faccia quando avremo maturato una visione condivisa e reso partecipi le persone. In questo periodo giro molto: un’assemblea di circolo al giorno per presentare il mio libro. C’è una sete di partecipazione che non trova sbocco. Attenzione a non umiliarla. Alle tribù bisogna togliere l’arma più forte: il sonno della politica e il silenzio delle persone.

Chiede una Leopolda romana?

Chiedo un ritorno alle persone. Matteo Orfini non abbia paura della libertà di discussione.

Lei ha scritto due libri su come si è guastato il «sistema Roma». E fra i primi ha indicato la «lotta tribale» delle correnti. Oggi cosa dovrebbe fare Orfini?

Far circolare idee. Non avere paura del confronto libero. Rilanciare i Forum tematici e associarli ai circoli del lavoro, anziché abolirli. Io apprezzo il coraggio con cui Orfini si è buttato in questa impresa per fare pulizia ma trovo un po’ criptici questi primi mesi e vedo il rischio che in giro si dica che si vuole lasciare in piedi una sola corrente, la sua. Solo il fattore sovversivo e liberatorio della discussione può curare il nostro male e fugare i sospetti di una sotterranea ’reductio ad unum’ delle vecchie conventicole.

Si possono smantellare le filiere di potere senza nominare, e pure espellere, quelli che le hanno organizzate?

Questo non è un processo. Certo, c’è chi ha pensato che per sopravvivere nel Pd bisognasse crearsi un gruppo e questo io l’ho criticato anche parlando con chi ha fatto queste scelte. Personalmente mi batto per rendere impraticabili per sempre logiche e modalità che nulla hanno a che fare con un Pd che voglia cambiare l’Italia.