La morte di Andrea Soldi durante l’esecuzione di un Tso è una metonìmia. Narra qualcosa di più generale che trascende il fatto in sé, pur gravissimo, lasciando intravedere nodi irrisolti nel rapporto tra autorità e libertà individuale. Proviamo a scioglierli.

Lo Stato di diritto ammette la forza, ma vieta la violenza. Della forza è l’apparato statale ad avere il monopolio legale, e può servirsene – anche attraverso la semplice minaccia – per garantire effettività alle sue norme giuridiche, le sole coercibili. Quel monopolio, però, diventa illegittimo se trasmoda in violenza, nel nome di una supremazia presunta sulla libertà personale e morale dell’individuo.

Ecco perché il nostro corpo e la nostra mente sono tutelati in Costituzione, specie laddove il rapporto tra individuo e autorità si fa asimmetrico, stabilendosi che «nessuno» può essere arbitrariamente sottoposto a misure coercitive cautelari (art. 13), detentive (art. 27) o sanitarie (art. 32). L’arresto di un criminale, la detenzione di un condannato, il trattenimento di un clandestino, l’internamento di un folle reo – anche quando giustificati dalla legge – non possono mai tradursi in trattamento inumano, degradante, addirittura esiziale nelle forme equivalenti della morte provocata o del gesto suicidario. Se accade – e accade sovente, viste le troppe condanne a Strasburgo per violazione dell’art. 3 Cedu – lo Stato è, alla lettera, fuorilegge.

Tutto ciò vale anche e soprattutto per l’esecuzione di un Tso, misura sanitaria che la legge pone a garanzia non della collettività, ma del malato.

Lo fa sottoponendo la proposta di Tso a doppia certificazione medica, a motivata e tempestiva convalida giudiziaria, a durata massima certa. Lo fa richiedendo una triplice condizione per la sua autorizzazione: l’urgenza terapeutica, il rifiuto di cure dell’alienato, l’impossibilità di adottare tempestive misure extraospedaliere. Lo fa esigendo fino all’ultimo istante utile iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione di chi vi è obbligato: perché «di norma» i trattamenti sanitari hanno da essere volontari (art. 33, legge n. 833 del 1978), e un Tso autorizza ma non impone la contenzione.

Sono regole figlie del principio costituzionale per cui il ricorso a misure coercitive è un’extrema ratio. Regole fondamentali opportunamente ricalcate nel parere approvato all’unanimità dal Comitato Nazionale di Bioetica, il 24 aprile scorso: il ricorso alla contenzione, anche nell’ambito del Tso, può avvenire «solamente in situazioni di reale necessità e urgenza, in modo proporzionato alle esigenze concrete, utilizzando le modalità meno invasive e solamente per il tempo necessario al superamento delle condizioni che abbiano indotto a ricorrervi». Nessuna finalità sanitaria – si legge – può giustificare l’abuso della forza che, dell’autonomia individuale, è sempre una violazione dagli effetti (anche terapeutici) controproducenti.

Con ciò non si nega la malattia mentale né i dilemmi che essa pone a chi, impotente, chiede il ricovero forzato del proprio familiare. Semmai si ribadisce la piena consapevolezza che chi non ha diritti non è, poiché a chi tutto ha perso capita facilmente di perdere anche se stesso. Fino alla propria vita, com’è accaduto ad Andrea Soldi.

Restituire al soggetto coercito la sua dignità personale (fatta di soma, psiche e civitas), e rispettarla: è, questa, la condizione necessaria per evitare che possa ripetersi – in un carcere o in un Opg, in un commissariato o in un Cie – quanto mai avrebbe dovuto accadere sulla panchina di una piazza di Torino, nell’Italia del terzo millennio.