Se ne è andato l’altro ieri ucciso a 62 anni da un tumore al fegato Tommy Ramone (Tamás Erdélyi), il batterista originario dei Ramones. Il primo e l’unico. Capace con quella cassa squadrata di star dietro ai pezzi come un treno, mai un guizzo, una rullata fuori posto, ma un costante, reiterato tum tum che non lasciava scampo. Su quella base ritmica si inseriva la chitarra di Johnny Ramone (John Williams Cummings), la voce di Joey Ramone (Jeffrey Ross Hyman) e il basso di Dee Dee Ramone (Douglas Glenn Colvin).

Dei quattro è stato il più longevo, quello che era passato al folk, quello che, secondo Dee Dee, era il più normale, il più defilato.
In origine doveva fare solo il manager del gruppo, poi Joey, che faceva il batterista, gli chiese di sostituirlo. Non ce la faceva a coordinarsi e a seguire il tempo degli altri tre, meglio starsene in piedi davanti a un microfono. Tommy Ramone suonerà con la band nei primi tre dischi della formazione (è anche co-produttore e si occupa degli assoli di chitarra), quelli che inventano il punk Usa e cambiano la storia del rock.

Ramones (1976), Leave Home (1977) e Rocket to Russia (1977) sono gli album con cui si è formata una generazione di fan, bombe di suono come mai prima si era sentito. Rispetto alla potenza granitica di Stooges, Mc5 o Blue Cheer, l’impatto dei Ramones era tutt’altra cosa: un rock’n’roll ipervelocizzato suonato con le chitarre distorte dell’hard rock. Tre accordi e via. Era la febbre capace di passare da 36 a 40 gradi in poco più – o meno – di due minuti (tanto duravano le canzoni); era una furia sonora aggraziata dai ritornelli dei Beach Boys, delle Ronettes, di Chuck Berry, di Elvis, sospinta da testi capaci di tener dentro Charles Manson e l’happy family Usa, democratici (Joey) e repubblicani (Johnny).

In questo i Ramones sono stati più «american» di quanto si possa immaginare, con lo stesso logo della band che snaturava il sigillo presidenziale e al posto di frecce e ramoscello d’olivo metteva tra le grinfie dell’aquila la mazza da baseball e un ramo di melo, due simboli iperamericanizzati (la apple pie, peraltro, è uno dei dolci nazionali).

Ma è la ritmica che faceva la grande differenza. Quando nel ’79 uscì il doppio It’s Alive registrato il 31 dicembre del ’77 al Rainbow di Londra fu uno shock. Nessun live aveva mai raggiunto quel livello di velocità e rumorosità . Nessuno batterista correva in quel modo. Quello è anche l’ultimo disco in cui compare Tommy Ramone (che qui produce tutto da solo) prima di sfilarsi dal gruppo; continuerà a dare una mano al management e si rifarà vivo come produttore in Road to Ruin, il quarto album della band.

La sua morte chiude un’era. Non solo va via l’ultimo tassello della formazione originaria, sparisce anche quel suono così completo e definitivo che aveva caratterizzato la band newyorkese. I suoi sostituti (dal 1978) non aggiungeranno nulla, con Marky senza dubbio più tecnico e Richie senza dubbio più veloce.

Tamás Erdélyi, ebreo ungherese, era nato da genitori sopravvissuti alle deportazioni perché i vicini erano riusciti a nasconderli. Crescerà a New York, a Forest Hills, nel Queens, dove insieme a Johnny Ramone metterà su una garage band.
Nel 1970 affiancherà i tecnici del suono nella produzione di Band of Gypsys, il live di Jimi Hendrix; è da qui che venivano molte delle conoscenze e capacità tecniche (produrrà i Replacements e i Redd Kross). Negli anni cambieranno le sue aree di attenzione sonora, darà vita agli Uncle Monk, un duo bluegrass distante anni luce dalla furia dei Ramones. Dirà che punk e folk hanno molto in comune, stesso spirito popolare, casalingo, stessa energia.

La morte di Tommy Ramone cade in un anno cruciale nella storia dei Ramones: proprio lo scorso 30 aprile, l’album di debutto della band – che si apre con Blitzkrieg Bop, il classico scritto da Tommy, anche primo singolo del gruppo – ha superato le 500mila copie diventando disco d’oro negli Usa. In origine ne aveva vendute solo seimila. Quarant’anni di attesa, quarant’anni al massimo della velocità.