Cesare Garboli fu critico molto selettivo, tanto da lasciare parte assai abbondante della propria attività a uno stato gassoso, non avvicinabile, variamente e volutamente dispersa: La gioia della partita Scritti 1950-1977 (a cura di Laura Desideri e Domenico Scarpa, Adelphi «Saggi.Nuova serie», pp. 331, € 30,00) è il primo dei due volumi destinati a raccogliere gli scritti dall’autore mai radunati in vita. E se si osserva qualche data ci si accorge che la selettività fu una costante di Garboli: il suo libro d’esordio, La stanza separata, va in libreria che l’autore ha quarantuno anni, nel 1969. Ci vorranno tre lustri per vedere un nuovo volume, dall’impostazione assai originale, tra filologia e critica, Penna papers, del 1984; ma per avere altre raccolte di saggi dopo La stanza separata ci vorrà addirittura il 1989 (Scritti servili), anche se con Falbalas, l’anno dopo, Garboli sembra accelerare i tempi del recupero alla visibilità di se stesso. Diventa un autore di culto, ma solo nel 2002 si deciderà a Pianura proibita: nel frattempo avrà delegato a Ferdinando Taviani la raccolta degli scritti sul teatro in Italia negli anni settanta, Un po’ prima del piombo (1998).

A Roma dal 1944 al ’78

Gli scritti ora qui raccolti appartengono al periodo in cui Garboli visse a Roma, dove si era trasferito da Viareggio (era nato nel 1928) nel ’44; da Roma andrà via nel ’78 per tornare in Versilia, nella casa-cubo di Vado di Camaiore: la motivazione sarà quella dell’omicidio di Moro, e la meditazione su quei fatti sarà consegnata ad alcune pagine («La storia di via Fani») di un piccolo quanto importante libro, Ricordi tristi e civili (2001). Nella – come di consueto per lui – ben informata postfazione a La gioia della partita (le notizie sui testi si devono a Laura Desideri, compilatrice nel 2007 della fondamentale bibliografia), Scarpa riporta brani di una lettera inviata da Garboli a Fortini, datata 1960, allo scopo di declinare l’invito a compilare un manuale di letteratura italiana. C’è molto Garboli e non in potenza ma in atto: «mi sembra di essere portato a vedere le cose piuttosto come un problema da risolvere che come un tema da svolgere … non si tratta tanto di scrivere un libro scrivendo un manuale, ma di concentrare in un manuale una somma di libri da scrivere, come se fossero già stati scritti. Insomma un manuale omologa, generalmente, il risultato di tanti libri; e in questo caso, invece, non si tratta soltanto di omologare un risultato, ma anche di disputare la partita». Il titolo del presente volume nasce qui, con l’aggiunta della «gioia», che i lettori di Garboli sanno essere la parola finale del leggendario saggio-introduzione ai Diari di Antonio Delfini; ma viene in questa forma da un articolo del 1976 «sul gioco degli scacchi, al quale Garboli si dedicò in più modi: per svago, come inviato a grandi tornei mondiali e infine … come kibitzer, qualcosa tra lo spettatore e il disturbatore» (Scarpa).

Il linguaggio sportivo («omologare il risultato», oltre che «partita») riporta agli occhi e alla memoria un vecchio ritaglio di giornale relativo all’esperienza di Garboli con gli scacchi, che, come la sua copia del Fanalino della Battimonda, chissà dove sarà andato a finire, ma che però fu a suo tempo copiato. In un articolo scritto per la scomparsa di Carlo Caracciolo (la Repubblica, 17 dicembre 2008: curiosità o coincidenza astrale, sarebbe stato il giorno dell’ottantesimo compleanno di Garboli), Gianluigi Melega ha ricordato: « negli scacchi era convinto che, non essendoci possibilità di trucchi, fosse possibile arrivare ai vertici della specialità studiando a fondo la tecnica e i risultati dei grandi maestri. Lo aveva indotto a questo errore Cesare Garboli, altro appassionato scacchista, che cercò di conculcargli questa tesi quando, con Emanuele De Seta, prendemmo tutti un aereo per andare a Reykiavik, in Islanda, per la sfida mondiale tra Spasski e Bobby Fischer». Ma poi, «dopo tanto teorizzare, a un torneuccio per dilettanti organizzato lì per lì, Garboli venne sconfitto in poche mosse da un ragazzino adenoideo». La dove c’è gioia della partita, la sconfitta è sempre in agguato, ma perché non giocare? Ed è sempre in agguato soprattutto quando, come Garboli, le partite si giocano al modo che, nell’arte della critica, Šklovskij chiamava «la mossa del cavallo», ovvero la capacità di spiazzare senza requie.

Scrivere per capire

In copertina della prima edizione della Stanza separata stava scritto: «il libro involontario di un critico che scrive per capire». In che cosa consistesse questo capire lo si è visto dalla lettera a Fortini; e ci sono anche varie esplicite dichiarazioni di Garboli relative al maggior interesse per le persone che per i libri e al minor interesse per la letteratura rispetto a ciò che essa nasconde o rivela. Occorre aggiungere che un critico della specie dei saggisti deve la propria vicenda anche alla qualità dei libri che il destino gli mette sotto gli occhi, alle occasioni editoriali e no. Può andare a cercare nel passato, ma resta legato all’arbitrio del suo tempo. Garboli ha saputo approfittare di ciò che gli si è fatto incontro, accentuandone i tratti e creando nessi inattesi. Comunque: ha ragione Scarpa a dire che La stanza separata «è l’opera postuma del giovane Garboli, fondata per giunta sulla rimozione dei suoi ‘brevi anni Cinquanta’». Benché «La gioia della partita corra in parallelo con La stanza separata e, per gli anni 1969-1977, con la prima parte di Falbalas, bisognava guardarsi dal far retroagire il Garboli maturo sul Garboli più giovane».

Appunti, cartoni, schizzi

Detto questo, anche occorre dire che in questi scritti da lui stesso considerati minori (lavori provvisori che poi approderanno a risultati maggiori, come fossero appunti o cartoni o schizzi all’impronta) o non rientranti nel suo disegno di autore arrivato alla maturità, la geografia di Garboli è già chiara: alla sezione «Brevi anni Cinquanta» (dove stanno l’esordio di scuola dettato dal suicidio di Pavese e la replica alla stroncatura ideologica di Limelight di Muscetta) seguono i testimoni dell’attività editoriale (ci sono, tra gli altri, i nomi poi ricorrenti di Tobino, Bassani, Ginzburg, Soldati). Ma la parte più rilevante, e cioè utile non solo a riportare alla luce un Garboli disperso, ma per sua propria consistenza, è la terza del volume, con qualche sorpresa come lo scritto su Gianni Brera o un articolo dedicato a Benjamin, sulla cui opera Garboli non tornerà («Quello che Benjamin non aveva previsto, era che nella società di massa soltanto le tecniche estetiche possono diventare una forma autentica e fredda di religione»). Ha valore documentario la messa a punto sulla Storia morantiana quale romanzo («I conti con la Storia») e anche in quanto caso editoriale («Lo scandalo è la poesia»: «Abbiamo assistito all’esplosione di un caso letterario, o all’eruzione di un formicaio impazzito?»). Ma il capitolo di maggior rilievo è quello che porta a titolo «I figli rissosi delle tenebre», un breve viaggio tra i caravaggeschi occasionato dalla mostra in palazzo Pitti del 1970 e in realtà omaggio a Roberto Longhi, scomparso il 3 giugno di quello stesso anno. Il necrologio del Maestro fu accolto in Falbalas. Non questo articolo. Ricorda Scarpa come l’incipit di «I figli rissosi» – «Quando, insomma, cominciarono a dipingersi quadri caravaggeschi?» – sia l’eco di un grande saggio longhiano del 1943. «Ora, lasciare esposta una tale citazione tra le pagine di un libro pubblicato nel 1990 avrebbe significato per Garboli propalare una fonte, l’origine della detonazione che apre il saggio Longhi lettore pubblicato nel 1980: “Se non fossero mai stati dipinti dei quadri, Longhi avrebbe mai scritto un rigo?”». È una buona ipotesi, ma vale anche il contrario, se l’occultare è una mossa della partita tanto quanto l’aprire spavaldamente. E ci sarebbe voluto un lettore pronto lì per lì all’agnizione di lettura.