«Se gli americani se ne andranno subito allora qualcuno potrebbe anche ricordarli come liberatori. Se invece continueranno l’occupazione, allora tutti li ricorderanno solo come occupanti. Questa situazione di guerra, di attacco al nostro paese può innescare meccanismi perversi». Parole profetiche quelle di padre Jawadat al Kaza rispondendo alle nostre domande nella basilica latina di Notre Dame di Mosul. Era il 2003 e Saddam Hussein era stato costretto alla fuga pochi giorni prima. Ma a Mosul erano già visibili i primi segnali del disastro innescato dall’invasione e dall’occupazione anglo-americana dell’Iraq. La distruzione da parte dell’Isis della storica moschea di Giona (Yunis), posta sulla sommità della Collina di al-Tawba (il Pentimento) e di quelle di Wadi al-Akhdar e Najib Jader. La cacciata di cristiani, yezidi, curdi e delle altre minoranze sono solo alcune delle conseguenze della politica americana che ha distrutto l’Iraq. Washington prima ha regalato il Paese alla maggioranza sciita, poi ha lasciato libertà agli alleati del Golfo di assistere e finanziare la rivolta della minoranza sunnita. Fondi che hanno contribuito alla nascita dei gruppi jihadisti armati che hanno segnato 13 anni di storia insaguinata dell’Iraq, incluso Tawhid wal Jihad divenuto poi lo Stato Islamico in Iraq alleato di al Qaeda e, infine, l’Isis padrone per oltre due anni del nord dell’Iraq e della Siria.

Tutto ciò si respirava già a Mosul dopo la caduta di Saddam Hussein. Una calma carica di tensione dominava il centro della città, cresciuta a dismisura negli ultimi decenni tanto da essere nel 2003 con i suoi 1.200.000 abitanti la terza città dell’Iraq. Nel mercato popolare sulla sponda occidentale del Tigri profumato di spezie e aromi orientali, non era gradita la presenza degli occidentali, identificati tutti come alleati degli occupanti americani e responsabili delle enormi sofferenze patite dalla popolazione durante i 12 anni di embargo internazionale all’Iraq. Pochi giorni prima del nostro arrivo, alcuni abitanti erano stati uccisi dai marine durante una protesta contro gli Usa e non era servito a cambiare il clima la decisione di Washignton di sostituire la «crema» delle forze armate americane con normali soldati. Ad appesantire il clima era anche la presenza indesiderata in diverse zone della città di combattenti curdi, decisamente meno apprezzati di un altro valoroso curdo, Saladino, che a Mosul è ricordato con una statua che indica la via della riscossa, della liberazione di Gerusalemme dai Crociati. Sull’onda dell’avanzata americana, i peshmerga si erano spinti fino a Mosul prendendo il controllo di tutta la zona fino all’università, lungo una riva del Tigri. La popolazione araba scuoteva la testa e puntava l’indice contro gli Usa. «Nella nostra città ci sono tanti curdi, possiamo vivere insieme ma qui siamo a Mosul, in Iraq, non in Kurdistan», ci disse Alaa, un tassista. Alle bandiere del Partito democratico del Kurdistan, che sventolavano su alcuni edifici pubblici, molti automobilisti opponevano quelle dell’Iraq sulle macchine. Bandiere che non molto tempo dopo sarebbero diventate nere e a sventolarle sono stati anche tanti ex soldati dell’esercito iracheno e militanti del partito Baath, sciolti irresponsabilmente dall’ex governatore Usa dell’Iraq Paul Bremen.

È difficile scrivere di Mosul oggi senza essere lì. Di sicuro è molto diversa rispetto al 2003, senza le tante componenti che da secoli facevano parte della sua popolazione. Arabi, curdi e turcomanni, yezidi e tanti cristiani cattolici, protestanti, caldei, armeni, greco-ortodossi, nestoriani. Padre Jawadat è sicuramente scappato come tutti i cristiani. E immaginare un ritorno alla Mosul prima del 2003 è quasi impossibile. È comunque doveroso provare a rimediare, almeno in parte, agli errori devastanti commessi in tutto l’Iraq in 25 anni di guerra e di politica insana degli Usa, dell’Occidente, delle petromonarchie. La riconquista di Mosul, se mai avverrà, non porterà ad alcun risultato concreto se l’offensiva militare non apparirà come un progetto dell’Iraq di tutti gli iracheni ma un piano del dominatore di turno.