Presentato in chiusura di concorso a Cannes nel 2012, nell’ambito della 65ema edizione del festival, Mud, terzo film di Jeff Nichols, ha subito uno strano destino di disattenzioni critiche incrociate, considerato invece l’unanime plauso ottenuto dal precedente Take Shelter – presentato l’anno precedente alla Semaine de la critique. Il migliore dei film statunitensi in competizione sulla Croisette di quell’anno, essendo gli altri il pessimo The Paperboy di Lee Daniels che nemmeno il pissing di Nicole Kidman su Zach Efron ha riscattato, e il mediocre The Lawless di John Hillcoat, Mud è sfilato via quasi nella disattenzione generale nonostante un eccelso Matthew McConaughey pronto ormai dopo Killer Joe all’ascesa verso l’alto dei cieli di True Detective e oltre.
La maggior parte dei critici che si sono occupati del film, curiosamente ne hanno ricavato l’impressione, erronea a nostro avviso, di una presunta normalizzazione delle ambizioni di Nichols rispetto alle inquietudini di Take Shelter. Errore di prospettiva tipico, questo, di quanti non comprendono che la vocazione primaria del cinema statunitense è quella classica.

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Nel piacere di un racconto che si dilata per 130 minuti abbondanti, innestato con straordinaria precisione nel secolo della narrativa maggiore di Mark Twain per giungere a un finale che risuona di echi che sembrano provenire addirittura dall’epica anarchica di John Milius, e dalle malinconie de I guerrieri dell’inferno di Karel Reisz, fatte salve ovviamente tutte le inevitabili differenze di tali accostamenti evocati dal respiro generoso, ampio e intimo al tempo stesso del raccontare di Nichols.
Jeff Nichols si prende tutto il tempo possibile per creare un mondo e uno spazio credibile intorno ai suoi protagonisti. Ellis e Neckbone, occhio alle t shirt!, solcano il Mississippi come in un viaggio iniziatico conradiano. La meta del loro andare è un isolotto dove hanno notato un motoscafo incagliato fra i rami di un alto albero.
«Una cosa dannatamente strana, una barca fra gli alberi», ripete Mud, nella parlata strascicata e musicale dell’Arkansas, ruvida, minacciosa e sensuale come un blues di Howlin’ Wolf o Jimmy Witherspoon.
Mud ha una storia lunga alle spalle e da qualche parte anche un amore che vorrebbe rivedere (una Reese Whiterspoon «donna del bandito» sublime in versione white trash).
Jeff Nichols struttura il suo racconto come un romanzo di formazione di Nick Ray. L’assenza dei padri, la presenza della natura, potente come ne Il paradiso dei barbari e persone che vivono rigorosamente by night. D’altro canto Mud è anche un Motorcycle Boy del Delta, custode della propria mitologia, che punta verso il mare aperto.
Ellis, invece, come direbbero i Clash, vive sul fiume, e la sua casa rischia di essere smantellata, la nuova legge vuole che si viva in appartamenti. È più sicuro.
Come nella classica epica americana, Nichols si colloca al centro del conflitto che oppone la natura alla civilizzazione e viceversa. E non è un caso che Ellis sarà morso da un serpente nel cuore del suo Eden sempre più minacciato dall’esterno.
Mud, un Huckleberry Finn cresciuto ma che non vuole saperne di diventare adulto, aggrappato alla sua terra sino all’ultimo, le cui orme lasciano croci contro il malaugurio nella sabbia, è senz’altro uno dei personaggi più riusciti che il cinema statunitense ci abbia offerto da un lustro a questa parte. Nichols possiede una comprensione profonda e istintiva della mitologia americana ma, cosa realmente importante e che fa la differenza autentica, sa come organizzare narrativamente in forme filmiche originali il suo sentire. Mud, infatti, pur essendo un film sostantanzialmente neoclassico, volutamente ancorato al corpo della tradizione maggiore del cinema americano, non è succube del fascino operato dalla feticizzazione della nostalgia, bensì si premura di pensare oggi ciò che non passa in termini di cinema delle storie e delle forme di ieri.
Lo strappo che si produce fra una sensibilità legata a valori filmici inattuali e lo sguardo che interpella una siffatta materia composita offre l’immagine di un cinema schiettamente contemporaneo e classico al tempo stesso perché verifica la propria vocazione nel gusto e piacere di un farsi che non può né evitare, né prescindere dal collocarsi nell’oggi per trovare la sua dimensione più autentica.
Nichols non si gioca mai la carta del secondo grado o della pura deriva cinefila. Preferisce immergersi in un territorio e in una lingua, ascoltandone gli accenti, tentando di portarne alla luce gli echi, senza cadere nella trappola del mimetismo o del neo-naturalismo (per dirla con Paul Vecchiali).
Mud, in questo senso, nonostante il ritardo della distribuzione italiana, si presenta come uno dei titoli più interessanti e ricchi del nuovissimo cinema Usa. E Jeff Nichols con Mud si offre, molto di più rispetto a Take Shelter, come un prezioso esemplare di classicista modernista candidandosi a diventare uno dei luoghi ineludibili dai quali osservare le metamorfosi di domani del cinema americano.