Erano le Bunter Abend, le serate colorate, perché nel campo di internamento di Ferramonti di Tarsia, in Calabria, nella cupa atmosfera della prigionia, solo la musica composta dai musicisti internati, suonata in una baracca adibita a sala concerti, apriva squarci di luce e colore.

Nelle terre paludose dell’Alto Cosentino il regime aveva deciso di impiantare il più grande campo di detenzione per ebrei stranieri dopo la Risiera di San Sabba vicino Trieste e dopo quello di Renicci, nella strada impervia che da Arezzo porta ad Anghiari.

IN QUESTI LUOGHI la reclusione era vissuta come misura di polizia, in attesa di individuare «paesi disposti a riceverli». Lo ricorda lo storico Spartaco Capogreco che ha analizzato il sistema dei campi fascisti nel volume I campi del duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943), edito da Einaudi. In quell’ambiente si stabilì un tacito patto di non belligeranza tra internati e autorità di custodia: «Fate quel che volete, purché siano salve le apparenze e ci vengano evitati richiami e fastidi».

Si crearono, così, vere e proprie città in miniatura, con opera di assistenza sociale, ambulatorio polispecialistico, stabilimento di bagni, ufficio del lavoro, maternità e infanzia, patronato scolastico, commissione culturale, sezione musicale, compagnia teatrale, collegio arbitrale e financo un parlamento che amministrava «democraticamente» il campo 4.

Capogreco descrive questa «cittadella Ferramonti» per sottolineare la peculiarità insita in quello che «non fu certo un lager» nonostante il filo spinato e le garitte potessero far pensare il contrario. La straordinaria inventiva, la grande duttilità degli ebrei che vennero internati resero possibile la realizzazione di una struttura collettiva che attingeva a un concentrato di intelligenza, di cultura, di competenze tecniche, professionali e civili provenienti da tutta l’Europa centro-orientale. Ferramonti detiene il primato di primo campo di concentramento in Europa liberato dagli Alleati.

UNA VOLTA GIUNTI QUI, con un’azione che Capogreco definisce «imprevista», gli angloamericani riorganizzarono subito il campo per far fronte alle nuove necessità, e gli internati, sparsi nei colli limitrofi, tornarono presto sul posto.

Ferramonti diventò così nell’immediato dopoguerra un punto di riferimento e di raccolta per gli ebrei in precedenza confinati e internati in diverse località vicine al campo. Un piccolo «staterello ebraico», in cui gli ex internati si misero al servizio degli Alleati.

L’oblio progressivo del passato dopo la seconda guerra mondiale colpì anche il campo di Ferramonti. Le baracche che lo componevano sono sopravvissute, più o meno intatte, sino agli anni Sessanta. Poi furono in larga parte divelte per far posto al tracciato autostradale della Salerno Reggio-Calabria. Complice l’incuria delle autorità locali, l’intero campo è stato prima utilizzato per attività agricole e poi, progressivamente, smantellato. Nessuna delle originali baracche degli internati è rimasta. Attualmente l’area, anche se sottoposta a vincolo e dichiarata dal Mibact sito di interesse storico, è un semplice terreno agricolo. Accanto è presente un piccolo museo di proprietà del comune di Tarsia, denominato Museo Internazionale della Memoria, inaugurato il 25 aprile 2004. Attorno alla storia di Ferramonti sono sorte successivamente due distinte fondazioni: la Fondazione Internazionale Ferramonti di Tarsia per l’amicizia fra i popoli (con sede a Cosenza) e la Fondazione Museo della Memoria Ferramonti di Tarsia (con sede a Tarsia).

A FERRAMONTI malgrado l’affollamento e l’infelicità, perché era comunque luogo di detenzione coatta, situato fuori dalle grandi vie di comunicazione, lontano dai centri urbani, in zona umida e malarica, costituito da baracche o locali di fortuna spesso poco igienici, furono possibili la tolleranza e il rispetto per l’arte, grazie all’umanità di alcune guardie e all’appoggio della popolazione locale. Per questo, gli internati conservarono un ricordo positivo dei loro «carcerieri», come pure dei contadini dei dintorni e degli abitanti dei paesi vicini (Tarsia, Bisignano, Santa Sofia) e del cappuccino inviato dal Vaticano: padre Callisto Lopinot, un missionario di origine alsaziana.

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Proprio per ricordare le Bunter abend di Ferramonti, in occasione del Giorno della Memoria, l’Auditorium Parco della Musica di Roma ospita il 26 gennaio il grande concerto Serata colorata.

Un evento unico, in prima mondiale, perché da allora queste musiche non furono mai più suonate. In programma un repertorio tipico degli Anni ’30: jazz, kabarett, canzonette, avanspettacolo, ma anche brani di musica classica, canto corale e pezzi tratti dal repertorio ebraico, tra cui un Kaddish, e una bellissima Ciaccona del compositore italiano Tomaso Vitali, scritta nel 1700.

Protagonisti del concerto, reso possibile grazie all’imponente lavoro di recupero e ricerca musicale di Raffaele Deluca (musicista e musicologo del Conservatorio di Milano), un cast eccellente di diverse nazionalità e religioni: Fabrizio Bosso alla tromba; Vince Abbracciante alla fisarmonica, Giuseppe Bassi al contrabbasso, Seby Burgio al pianoforte; Andrea Campanella al clarinetto, Daniel Hoffman al violino, Eyal Lerner al flauto, e le voci di Lee Colbert, Myriam Fuks, Giuseppe Naviglio e del Coro Carlo Casini dell’Università di Roma Tor Vergata. Voce narrante sarà Peppe Servillo.

La storia musicale di Ferramonti è ricca di episodi straordinari: dall’armonium spedito dal Vaticano ed entrato nel campo come «materiale bellico», ai violini che furono costruiti da liutai locali, riconoscenti per essere stati curati dai medici internati. E poi ci sono gli spartiti. Moltissimi decorati con disegni sul frontespizio, con annotazioni a margine. Tutti con le impronte delle dita dei musicisti. Spartiti vivi che raccontano di sogni e di speranze colorate, nella realtà grigia dell’internamento. E ci sono le lettere commoventi di ringraziamento, i diari, le cartoline disegnate a mano.

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Kurt Sonnenfeld

«PROPRIO OGGI che si costruiscono muri, vogliamo diffondere con il linguaggio universale della musica un messaggio di fratellanza», ci spiega Viviana Kasam, per il quarto anno consecutivo organizzatrice del concerto per il Giorno della Memoria. «Da anni ricerco la musica scritta a Ferramonti. Ci sono arrivati manoscritti, spartiti, fotografie e diari, portati a Deluca da Armida Locatelli, erede del grande pianista Kurt Sonnenfeld che fu internato lì» – racconta -. L’esperienza di quel campo fu straordinaria: c’erano musicisti eccellenti come il trombettista Oscar Klein, il direttore d’orchestra Lav Mirski, il pianista Sigbert Steinfeld, il cantante Paolo Gorin, il compositore Isko Thaler e Sonnenfeld, giovane ebreo viennese, che sperava di espatriare negli Stati Uniti, ma venne arrestato a Milano e inviato a Ferramonti. La popolazione forniva loro gli strumenti per suonare. Fu dunque una detenzione più mite e in tanti andavano al campo per sentire i concerti».

Come si fa a raccontare la Shoah senza retorica? «Io sono ebrea, e la retorica cerco di combatterla. La Shoah non è la nostra identità, non c’è alcun merito a essere stati delle vittime. Rischiamo di trasformare di nuovo i morti in numeri: per questo usiamo la musica, perché restituisce l’identità e l’anima delle persone, dimostrando che niente può uccidere l’anelito a creare bellezza».

PERCHÉ IN POCHI CONOSCONO i 50 campi di internamento italiani? «Neppure gli ebrei li conoscono. Dopo la morte di Mussolini in Italia sembrava non ci fossero più fascisti. Il Paese non ha mai fatto i conti con il proprio passato, e tutte le colpe vennero date ai quei pochi della Repubblica di Salò. A Ferramonti non si uccise nessuno, è vero, ma non vogliamo fare l’apologia degli “italiani brava gente”. Perché le leggi razziali ci furono anche qui in Italia. E nel 2018 saranno trascorsi 80 anni».