Sono una novantina i partiti che si proporranno al voto dell’8 di novembre in Myanmar quando si svolgeranno le elezioni generali: le prime da che al governo – dal 2011 – non ci sono più uomini in divisa. Ma il timore che i militari e le loro milizie – che appoggiano il partito di governo – possano intimidire e minacciare chi si reca alle urne orientando il voto è una possibilità non troppo remota che è stata appena denunciata da un rapporto di Human Rights Wath.

C’è di più: secondo un membro del maggior partito di opposizione, che fa capo alla Nobel birmana Aung San Suu Kyi, i suoi leader hanno messo in piedi una vera e propria purga dei candidati musulmani nelle liste elettorali: la leadership della Lega nazionale per la democrazia (Lnd) è spaventata – ha spiegato il personaggio ad Al Jazeera – dalla possibilità che il risveglio di un razzismo che vorrebbe difendere la purezza della razza e la religione della maggioranza e che si è scatenato negli ultimi anni contro la minoranza musulmana – il picco massimo si è verificato nel 2012 – riemerga facendosi propaganda elettorale. Un timore che l’ha decisa a espellere dalle fila dei suoi oltre mille candidati (regionali e nazionali) chiunque abbia il marchio del credo di Maometto, nonostante i musulmani in Birmania siano circa 5 milioni il che fa di loro una percentuale rilevante della popolazione del Paese: 48 milioni.

Nemmeno nelle liste del Partito della solidarietà e dello sviluppo al governo (Usdp) – sostenuto dai militari anche se veste abiti civili – ci saranno ovviamente musulmani.

La pulizia etnico politica penalizza in particolare una comunità nel mirino da anni e bistrattata da sempre: i Rohingya, che una recente indagine di un gruppo di ricercatori della Yale Law School (la scuola universitaria di diritto della Yale University con sede in Connecticut) sostiene siano stati oggetto di azioni od omissioni da parte del governo birmano che potrebbero addirittura configurare un’accusa di genocidio. Nello Stato del Rakhine (Arakan), a oltre un milione di musulmani rohingya è stata negata la cittadinanza sostenendo che si tratta di «bengalesi» immigrati.
Un’accusa diventata pogrom verso la comunità che vive al confine con l’India e che recentemente è stata al centro di una fuga di massa via mare per cercare altrove rifugio. Ma rohingya o meno, il reato è essere di fede islamica.

Meglio prevenire polemiche e strumentalizzazioni: che non si presentino né abbiano deputati. Che stiano insomma fuori dal gioco elettorale il cui aspetto «democratico« acquista dunque un colore molto opaco.

I metodi sono stati ovviamente «legali» perché molti musulmani non hanno i documenti in regola e dunque è stato facile per le commissioni elettorali spuntare i loro nomi dalle liste.

La Lega teme dunque l’ondata nazionalista identitaria e religiosa che si è fatta sentire negli ultimi anni grazie soprattutto alla Ma Ba Tha o Associazione patriottica del Myanmar (Pab) anche chiamata Associazione per la protezione della razza e della religione. La religione è quella del compassionevole Gautama Budda nella sua accezione Theravada.
Ma Ba Tha è un’organizzazione nata formalmente nel 2014 e formata da un board di una cinquantina di membri tra cui spiccano accademici e soprattutto monaci, come Ashin Wirathu, un buddista estremista finito in galera nel 2003 per incitamento all’odio ma poi rilasciato nel 2010.

Ideologo di un Paese puro senza «bin Laden birmani», è anche il protettore del Movimento 969, un gruppo oltranzista islamofobo. La propaganda di personaggi come Ashin Wirathu – per citare il più noto – le azioni degli islamofobi e l’appoggio o la chiusura di entrambi gli occhi da parte delle forze di sicurezza, non solo ha permesso le azioni violente contro i rohingya nel 2012 (diverse vittime e 90mila sfollati) ma ha prodotto effetti legislativi in parlamento, facendo si che nel 2013 il ministero degli Affari religiosi proponesse quattro leggi per regolare conversioni e matrimoni inter-religiosi allo scopo di proibirli e per promuovere la monogamia e il controllo delle nascite. Il tutto su indicazioni dei radicali.

Di fronte all’ondata anti musulmana, soprattutto quando – dopo le violenze del 2012 – i rohingya hanno cominciato a fuggire in massa dal Myanmar, ha stupito il silenzio di Aung San Suu Kyi, la leader della Lega per la democrazia, che per opportunità aveva preferito non prendere posizione attirandosi le critiche, seppur velate, persino del Dalai Lama.
Ma adesso, la vicenda della purga pre elettorale, che coinvolgerebbe l’intera comunità islamica, fa scendere un’altra ombra sulla donna che tutti vorrebbero a capo dello Stato (anche se la legge sulla nazionalità lo vieta per via dei figli con passaporto britannico). Un brutta ipoteca sul voto di domenica prossima.