Lo spoglio delle schede in Myanmar sta consegnando la vittoria alla Lega nazionale per la democrazia di Aung San Suu Kyi. Con un’affluenza dell’80% e primi risultati molto confortanti, l’euforia si è impadronita dell’opposizione birmana che rischia finalmente di vedere coronato un sogno che sembrava impossibile. Sarebbero suoi la maggior parte dei deputati eletti (correvano una novantina di partiti con un totale di 6mila candidati) e in alcuni casi con una maggioranza assoluta: come nella capitale dove la Lnd avrebbe vinto 44 su 45 seggi mentre a livello nazionale, secondo le proiezioni dell’opposizione, la Lega potrebbe ottenere sino al 70% degli scranni. Tutto resta ancora da vedere e lo spoglio (50mila i seggi elettorali) richiede tempo. Un tempo che sembra infinito.

Il nuovo parlamento eletto dai birmani entrerà in funzione solo in marzo. C’è dunque tempo per vedere come andrà a finire quella che al momento appare una svolta ma sulla quale resta l’ombra lunga dei militari. Militari che governano dal 1962 quando rovesciarono il governo di U Nu restando da allora, sotto svariate forme, la casta con in mano le leve del potere politico e dell’economia. Da sempre in sostanza i generali birmani – riformisti o reazionari – hanno prodotto la leadership del Paese, dai dittatori della vecchia guardia come Ne Win al loro ultimo rampollo progressista, il generale Thein Sein, un uomo che ha smesso la divisa nel 2010 passando da primo ministro a interim a capo di un organismo civile seppur appoggiato dai militari (il Partito della solidarietà e dello sviluppo) grazie al quale, nel 2011, è diventato poi presidente della repubblica.

Non va dimenticato che Thein Sein, che nel 2007 aveva sostituito il generale malato Soe Win su mandato di Than Shwe, il capo della famigerata giunta militare nota col nome di Consiglio di Stato per la pace e lo sviluppo (Slorc), è un uomo della casta anche se si deve a lui il processo di riforma che ha condotto alle elezioni attuali.

Nel 2008, a buon conto, il suo governo ha promosso un referendum costituzionale – in un’atmosfera di intimidazione e broglio diffuso – con cui i militari si sono garantiti principalmente due cose: un controllo del parlamento e l’impossibilità per Aung San Suu Kyi di diventare presidente, anche se nel 2010 la Nobel è poi stata liberata dal regime di arresti domiciliari che la obbligava a una residenza forzata nella sua casa di Yangoon. Come?

La legge stabilisce che non può essere presidente del Myanmar chi abbia sposato uno straniero o i cui figli lo siano: Suu Kyi aveva un marito britannico e ha due figli col passaporto del Regno unito.

Quanto al controllo sul parlamento, i militari si sono garantiti per Costituzione 56 seggi dei 224 (ossia il 25%) alla Camera alta o Camera delle nazionalità (Amyotha Hluttaw). Alla Camera bassa invece( Pyithu Hluttaw), i rappresentanti dell’esercito – che non vengono eletti ma nominati – hanno diritto a 110 seggi su 440 (sempre il 25%). Un peso in grado di determinare le maggioranze anche se questa volta potrebbe non essere così. E qui sta il punto. Ma qual è il contesto e la cornice storica in cui si muovono i militari birmani e cosa dunque è lecito aspettarsi?

Nel Sudest asiatico, e per certi versi in quasi tutta l’Asia, i militari hanno sempre avuto e hanno un ruolo determinante fatte rare eccezioni (come il Giappone o l’India, dove comunque il peso politico delle Forze armate è, seppur indiretto, molto importante). Dal Pakistan all’Indonesia, passando per la Thailandia, i militari hanno dettato legge per anni e in alcuni casi ancora lo fanno attraverso dittature più o meno mascherate tra cui quella di Bangkok è il caso più eclatante. Se non c’è una giunta militare c’è spesso il partito unico (Vietnam, Laos, Cina, Nord Corea) o governi «democratici» che si reggono, come in Cambogia, su un esercito sempre pronto a servire il premier.

Nel Sudest asiatico, con la sola eccezione della Malaysia e delle Filippine o di piccoli staterelli come Timor Est, Singapore e Brunei, i militari son sempre stati onnipresenti: hanno in alcuni casi fatto notevoli passi indietro (l’Indonesia aveva una legge «birmana» che consentiva all’esercito di dominare il parlamento, ora non più) ma in altri (la Thailandia) sono tornati in scena per sistemare le cose (con l’accordo della casa reale). Il passato recente è pieno di uomini in divisa, appoggio fondamentale per il dittatore di turno.

I casi più noti sono le Filippine di Marcos (un civile) e l’Indonesia di Suharto (un generale). Le Filippine si sono avviate con difficoltà sulla strada di governi civili e democratici (anche se scontano un peso forte dei militari a cui la guerra civile nel Sud regala un ruolo di primo piano). L’Indonesia ha teoricamente chiuso quella stagione, conclusasi con l’uscita di scena di Suharto che però fu dimissionato – pur sulla scia di manifestazioni di piazza – dai suoi stessi commilitoni. E comunque ancora oggi, che pure comanda un governo civile, non si può ancora parlare del 1965, quando i generali sollevarono Sukarno e presero il potere per trent’anni e facendo piazza pulita di ogni opposizione. Una pulizia che costò la vita, nelle stime più blande, a mezzo milione di persone e una storia che oggi è ancora un tabù