Nessuna opera è stata tormentata come il Don Carlos nell’intero repertorio di Giuseppe Verdi. Il risultato è la partitura più estesa che egli abbia mai scritto, animata da personaggi che hanno i contorni angosciati e sfuggenti delle figure di El Greco, una vera e propria opera-mondo dalla trama multipla (storica, politica, religiosa, sentimentale) costruita con la tecnica del chiaroscuro: a livello fisico (giorno vs notte), ontologico (realismo della vicenda storica vs fantastico dell’apparizione di Carlo V), ideologico (oscurantismo vs illuminismo), musicale (modo maggiore, tonalità, linearità melodica vs modo minore, sospensione tonale, oscillazione armonica).

Ultimata alla fine del 1866 sul libretto francese di Joseph Méry e Camille Du Locle, la partitura è troppo lunga per le convenzioni dell’Opéra di Parigi, che l’ha commissionata, e viene accorciata. Debutta con poco successo l’11 marzo 1867. Il 4 giugno la versione ritmica italiana di Achille de Lauzières, con numerosissimi tagli apocrifi (tra cui l’intero I atto) per mano del direttore Michele Costa, debutta con successo al Covent Garden di Londra; il 26 ottobre arriva al Comunale di Bologna, in 5 atti e con modifiche apocrife per mano del direttore Angelo Mariani. Nel 1872, in occasione di una rappresentazione a Napoli, Verdi interviene sullo spartito italiano modificando anche il libretto (per i nuovi versi si rivolge ad Antonio Ghislanzoni). Nel 1882, in vista di una rappresentazione prevista a Vienna, Verdi torna sullo spartito francese dell’opera eliminando il I atto e facendo comporre nuovi versi a Du Locle, subito tradotti in italiano da Angelo Zanardini, che revisiona tutta la versione di De Lauzières: l’opera debutta alla Scala di Milano il 10 gennaio 1884. Nel dicembre 1886, infine, a Modena, senza intervento diretto di Verdi ma con la sua approvazione, va in scena un Don Carlo che ripristina il I Atto e dal II Atto in poi riproduce la versione di due anni prima.

Da sempre i direttori  intervengono sul corpo martoriato di questo capolavoro approntandone la loro versione: celebri quelle di Claudio Abbado nel 1977 e di Antonio Pappano nel 1996, cui si aggiunge quella di Myung-whun Chung in scena alla Scala fino al 12 febbraio, ciascuna delle quali a suo modo fonde le versioni del 1866, 1867 e 1886. Il direttore coreano anima la sua versione con stupefacente precisione nei tempi e nelle dinamiche, con un’attenzione ai cantanti così drammaturgicamente meditata e allo stesso tempo naturale da arrivare a un equilibrio raro tra i volumi dell’orchestra e delle voci, auscultando e restituendo al pubblico le prelibatezze armoniche della partitura.

Il risultato è intenso,  compatto, straziante, incalzante, incalzato dalla splendida interpretazione di Filippo II data da Ferruccio Furlanetto, cui l’età ha conservato un timbro bello e corposo e ha aggiunto una consapevolezza del ruolo in ogni sua piega, preservando il suo fascino anche quando si rifugia nel parlato. Lo segue da vicino il Don Carlo di Francesco Meli, che fraseggia generosamente e con grande stile dall’inizio alla fine, al netto di un paio di incrinature in acuto. La Elisabetta di Krassimira Stoyanova e il Posa di Simone Piazzola sono assai meno voluminosi ma sorretti da una tecnica vocale e da una compostezza attoriale che li rende convincenti senza riserve.

La Eboli  interpretata da Ekaterina Semenchuk convince nella prima aria e delude nella seconda. Il Grande Inquisitore di Eric Halfvarson è tanto forte scenicamente quanto arrischiato vocalmente. Peter Stein e la sua regia: ahimè, non pervenuti.