Naomi Klein è una studiosa, giornalista e attivista che i movimenti sociali hanno imparato a conoscere negli anni. Autrice del fortunato «NoLogo», ha partecipato ai movimenti noglobal statunitensi e canadesi. Ha poi seguito da vicino l’esperienza delle «fabbriche autogestite» argentine. Alcuni anni fa ha pubblicato un importante libro dove metteva al centro la paura come il sentimento usato dal potere costituito per imporre politiche sociali e economiche neoliberiste (Shock economy, Rizzoli). Incontriamo Naomi Klein a Venezia, a margine dell’evento di presentazione dell’edizione italiana del suo ultimo libro, Solo una rivoluzione ci salverà (Rizzoli. Il volume è stato presentato il 21 settembre del 2014 su queste pagine, qui e qui).

«Con voi in Italia – esordisce Naomi Klein – ho capito per la prima volta, quindici anni fa, il concetto di reddito di cittadinanza e ho imparato una parola per me nuova: precarietà. È importante tornare qui a discutere come questo termine descriva oggi la situazione dell’intero pianeta. E sono i decenni del neoliberismo ad aver resa drammatica la crisi ambientale. A imporre un cambiamento radicale che metta in discussione il capitalismo per come lo conosciamo».

«No Logo» è stato tra i testi che hanno segnato la stagione del movimento noglobal, poi hai costruito un rapporto stabile con le lotte indigene, in particolare nell’esperienza zapatista, infine hai attraversato le prime mobilitazioni sul climate change, come a Copenhagen nel 2009. La tua definizione di «Blockadia» è anche uno stimolo a pensare movimenti in forma nuova. Quali differenze vedi col passato e con quali prospettive?

I movimenti sono fluidi e le etichette che gli attribuiamo sono spesso arbitrarie. Credo ci sia una continuità tra le esperienze che hai citato e il presente. Tutte le esperienze nuove si appoggiano sulle spalle delle precedenti, evolvendo e cambiando. Ho provato a individuare il momento d’inizio di «Blockadia» nella lotta del popolo Ogoni, la cui resistenza ha combinato la difesa dei diritti umani e la resistenza alle politiche estrattive, nel lontano 1998 in Nigeria. Dal punto di vista del Nord globale, dobbiamo riconoscere che, a differenza del passato, i movimenti del «no» si pongono oggi il problema di costruire modelli alternativi. Pensiamo al caso della lotta in Grecia contro la miniera di Eldorado, che ha un impatto pesantissimo sull’ambiente circostante e che Syriza si propone di chiudere. La comunità locale in lotta, di fronte alla questione della disoccupazione, ha indicato quali potessero essere le alternative, nello sviluppo del turismo e di altre attività sostenibili.

Hai dedicato una particolare attenzione agli stimoli che vengono dalle popolazioni native. Al recente Festival zapatista in Messico, alla domanda «voi siete contro il progresso?», gli indigeni rispondevano «non siamo contro la modernità, basta mettersi d’accordo su che cosa significhi»…

Dobbiamo chiederci: quale è lo scopo dell’economia? Se l’obiettivo è solamente la crescita, che troppo spesso viene confusa con il progresso, siamo fuori strada. Lo scopo dev’essere invece un sistema economico che protegga e favorisca la vita sulla Terra. Per questo non mi convince la definizione di «decrescita», perché ti fa pensare che tutto debba essere contratto, quando invece non è così. Ci sono cose che, per forza, dovranno essere drasticamente limitate, e cose che hanno al contrario un’enorme possibilità di espansione. Ci sono professioni come i lavori di cura, i lavori creativi, che sono già a bassissimo consumo di risorse non rinnovabili, a bassissimo livello di emissioni, e sulle quali si può investire moltissimo. L’approccio all’economia dev’essere sempre strategico: da un lato ridurre ciò che è nocivo, dall’altro ampliare ciò che c’è di positivo.

La cosa più interessante che ho imparato dall’attivismo in «Blockadia» è proprio l’influsso delle lotte delle popolazioni indigene di tutto il mondo sui movimenti sociali urbani. Gran parte delle risorse fossili nel sottosuolo si trovano in territori abitati dai nativi. E sono loro i primi a soffrire, nella loro cultura e nei loro corpi, dell’impatto delle politiche estrattiviste, per l’impossibilità a condurre i loro modi di vita tradizionali e per i danni alla loro salute. Per questo sono diventati figure chiave in queste battaglie. E hanno trovato sponde anche al di fuori dei confini delle loro comunità. Le persone, lavorando assieme, hanno cominciato a influenzarsi reciprocamente. Il contributo più significativo dei nativi è stata l’idea di superare la logica della dominazione dell’uomo sull’ambiente, della supremazia che annichilisce la natura.

Dopo i fatti di Ferguson, la grande mobilitazione negli Stati Uniti contro le violenze e l’impunità della polizia, sei intervenuta sul tema del «razzismo ambientale». Quale rapporto individui tra le lotte sul cambiamento climatico e quelle per i diritti?

Se noi vivessimo in un mondo in cui tutte le vite avessero lo stesso valore, si sarebbe agito per tempo contro i cambiamenti climatici. Le persone maggiormente responsabili per la crisi ambientale sono quelle più protette dai suoi effetti, mentre quelle meno responsabili sono le più vulnerabili alle sue conseguenze. C’è della crudele ironia in questo. Ma è una realtà che abbiamo ogni giorno sotto gli occhi. Pensiamo all’Africa Subsahariana, paesi dove il livello di emissioni è praticamente nullo, ma dove gli impatti dell’aumento delle temperature medie hanno avuto effetti devastanti sulla vita di tantissime persone.

E anche le risposte future saranno filtrate da questo strutturale razzismo. Significa che le frontiere saranno sempre più militarizzate per fermare i profughi ambientali in fuga dalla desertificazione. Significa che se le geotecnologie fossero effettivamente applicate produrrebbero effetti deleteri per il resto del mondo, per esempio con il fenomeno dei monsoni in Asia. In altri termini, le persone saranno ancora più sacrificate, non solo nella creazione, ma anche nella soluzione dei problemi. Per questo è necessario un cambiamento profondo nei valori. Se il capitalismo è un sistema che contiene diversi elementi di efferatezza, di fronte ai rischi climatici questi aspetti brutali non faranno altro che aggravarsi.

L’Europa sta vivendo un momento particolare. Conosci la situazione greca e gli effetti della gestione della crisi in questi anni. Che rapporto individui tra austerity e «climate change»? E quali risposte possiamo dare?

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Per me il legame è chiarissimo. Ed è la ragione per cui, dall’inizio della crisi economica, il tema della crisi climatica è sparito dall’agenda politica europea. E contrastare il disastro ambientale mantenendo le politiche di austerity è semplicemente impossibile. Perché se prendiamo sul serio il tema del cambiamento climatico, dobbiamo accettare delle dure verità. Cioè porci il problema di tagliare almeno del dieci per cento ogni anno il livello delle nostre emissioni. Questo richiede enormi investimenti nella sfera pubblica, che dev’essere preparata ad affrontare i tempi difficili che ci attendono. Per evitare che la situazione divenga catastrofica, vanno messe in gioco grandi risorse. Bisogna ripensare il trasporto pubblico che dev’essere gratuito. Devi ridisegnare le nostre città. Bisogna ripensare le infrastrutture energetiche in termini decentralizzati. Tutto questo è semplicemente incompatibile con il concetto di austerity. La buona notizia è però che, mettendo in atto queste misure, si creano incredibili opportunità anche economiche e lavorative.

Per questo motivo, il cambiamento climatico potrebbe essere uno dei migliori argomenti per i movimenti anti-austerity. E rimane per me un mistero la ragione per cui non si parla mai di ambiente quando ci si mobilita per difendere la sfera pubblica dalle logiche neoliberali. Al tempo stesso in Europa abbiamo tanti motivi di speranza, dopo la vittoria di Syriza nelle elezioni in Grecia e la straordinaria crescita di Podemos in Spagna, in vista della conferenza COP 21 a Parigi alla fine dell’anno. E sarebbe indispensabile che tutti questi fili si congiungessero, per riuscire a creare un unico movimento per il cambiamento.

Un’ultima questione: «change» appunto è la parola chiave di questo tuo ultimo libro. Che possibile definizione daresti oggi del cambiamento radicale di cui abbiamo bisogno?
Ci sono molti modi per affrontare la questione. La cosa più importante è respingere la cultura del consumo, una cultura che prima usa e poi getta via indifferentemente le persone, il loro lavoro, le loro vite. Anche il pianeta viene usato e gettato. Come se la fine non dovesse mai arrivare. Qui sta il necessario cambio di paradigma. Cominciare a vivere come se il futuro fosse effettivamente in arrivo e come se dovessimo davvero fare i conti con le conseguenze delle nostre scelte di oggi. Il crollo del prezzo del petrolio ci offre adesso una grandissima opportunità. Se mi guardo attorno, vedo che la gente non ne può più di passare da uno shock economico all’altro, da un disastro ambientale al prossimo, da una crisi all’altra. La prospettiva di vivere in una società giusta e durevole è qualcosa che sta diventando desiderabile per molti.

C’è un gruppo in California che si occupa di giustizia climatica e vede la realtà in termini di «shocks, flides and shifts»: cioè di crisi, di crolli ed improvvise esplosioni di bolle; di più lenti smottamenti, cioè trasformazioni di più lungo termine; e di mutamenti come sostanziali passaggi di stato, che rappresentano non a caso ciò che vorremmo. I primi due devono essere imbrigliati per produrre quest’ultimo autentico cambiamento. Questo è il momento dell’onestà, il momento in cui le cose possono cambiare. Ma bisogna essere in tanti per sfruttare questa occasione. Da qui alla mobilitazione di fine anno a Parigi, soprattutto in Europa bisognerebbe esprimere quattro o cinque semplici rivendicazioni, su cui tutti lavorare assieme: ad esempio, l’obiettivo del cento per cento di energie rinnovabili; poi, la gratuità dei trasporti pubblici; il concetto «chi inquina paga»; infine affermare che le risorse fossili devono rimanere sotto terra. Qui c’è bisogno, anche per i partiti della sinistra, di gettare il proprio sguardo oltre il presente. Dobbiamo passare da una cultura della morte a una cultura della vita.

La parola «vita» è stata abusata dai movimenti anti-abortisti. Ma dobbiamo riappropriarcene. L’attuale regime economico si fonda sul dissotterramento di cose morte. Al di là della metafora, non è affatto sano fondare la propria vita sulla morte. Si è creato un enorme squilibrio fra questi due elementi. Ed è necessario ridare il giusto spazio alla vita.

* Hanno collaborato Gianfranco Bettin (www.veneziaincomune.it) e Vilma Mazza (www.yabasta.it)