In questa fase storica il cinema in generale d’autore e non (compreso quindi anche il cinema americano blockbuster più spettacolare) sta ripensando la sua vocazione al sogno, a prospettare altri mondi possibili, sta ridefinendo se non la speranza di cambiare il mondo la fiducia nella capacità di prefigurarne uno migliore, sta ridisegnando la sua forza di rappresentazione/descrizione/narrazione di una realtà in questa fase immodificabile, sta ripiegando su se stesso come la società che lo produce. Oggi si parla molto di “cinema del reale”, di “cinema della realtà” riferito sia al documentario che alla fiction. Questa riflessione naturalmente riguarda anche il cinema italiano che resta mediamente il più sgangherato, ondivago e carente di una prospettiva di crescita complessiva ma forse proprio per questo paradossalmente il più aperto a soluzioni narrative e prospettive linguistiche interessanti. E ancora di più il cinema napoletano (o campano più in generale) dopo le varie (presunte) nouvelle vagues, sembra volersi scrollare di dosso il peso ingombrante di movimenti che spesso non erano tali e etichette semplificative, raccontando con maggiore libertà la contemporaneità, rivolgendosi a un passato con il quale fare ancora i conti o a un presente con l’urgenza più che di denunciare di cogliere con impressionistico distacco i drammi umani o le tragedie storico-politiche, lasciandosi alle spalle oleografie, rinascimenti e solarità per calarsi nelle viscere e nelle oscurità di Napoli. Quattro film recenti confermano che l’attuale produzione partenopea sta prendendo le strade espressive più eterogenee e incompatibili, sta affrontando questa fase con la voglia di raccontare una realtà complessa e magmatica con le forme e gli stili più diversi. E poco importa se le quattro opere in questione esibiscono livelli qualitativi diversi, se hanno distribuzione o sono destinate a restare opere prime fuori dal mercato. Con Napoli ’44 , il documentario inspirato al best seller omonimo di Norman Lewis, presentato alla Festa di Roma, uscito da qualche mese in alcune sale italiane ( andrà in onda su Sky entro gennaio), Francesco Patierno racconta la Napoli del ’44 attraverso gli occhi di un ufficiale britannico, tra materiale di repertorio e spezzoni di film, le macerie e la guerra, Totò e Mastroianni. Nel 1943 un giovane ufficiale inglese, Norman Lewis, entrò con l’esercito americano nella Napoli devastata dalla guerra. Per il giovane ufficiale inglese è l’inizio di un’avventura lunga un anno, in cui entra in contatto con un’umanità, una dignità che impara a comprendere e ad ammirare. Inizia a scrivere pensieri, ricordi, descrizioni, che sono diventati poi un best seller. Il film di Patierno immagina l’ufficiale inglese, ormai scrittore famoso, tornare a quella Napoli che abbandonò, richiamato, con il rimpianto nel cuore. Un viaggio tra passato e presente pieno di flashback tra macerie e sangue, orfane cieche, soldati scioccati, le bombe, la fame, le malattie, il sangue di San Gennaro, i professionisti del funerale. Nel film la voce narrante è di Benedict Cumberbatch, mentre nella versione italiana è quella di Adriano Giannini. Patierno, uno dei migliori talenti partenopei della sua generazione, un esordio folgorante con Pater Familias, ha fatto un ottimo lavoro di dosaggio emotivo e di equilibrio estetico tra materiali d’archivio, spezzoni di film e nuove riprese, bianco e nero e colore.
Anche Il mondo magico, docu-fiction opera prima di Raffaele Schettino, romano con origini irpine (da giovedì nelle sale), guarda al periodo della guerra attraverso una vicenda vera a cavallo tra gli anni 40 e 50. E’un’occasione per raccontare, fra antichi riti e canti popolari, il territorio attraverso cui si dipana la storia vera di Gianni (interpretato dal regista): sopravvissuto alla campagna di Russia durante la II guerra mondiale, diserta e si rifugia a Piadena, in provincia di Cremona, dove si innamora della misteriosa Teresa. Nella confusione che segue l’armistizio del 1943, decide di rientrare a Frigento, in Irpinia, sua città di origine, dove sposa Tina, il suo primo amore. Teresa, abbandonata, trasforma la sua rabbia in maledizione e da quel momento la vita di Gianni è un’unica teoria di sciagure. Qualche anno dopo, Gianni ha trovato impiego come carabiniere in Valnerina ed è costretto dai superiori a reprimere nel sangue le lotte dei lavoratori in difficoltà a causa dei licenziamenti. Utilizzando un interessante materiale di repertorio tratto dall’Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico e con il contributo di gruppi di musica tradizionale popolare locali, il film vuole essere un vero e proprio viaggio musicale in quel mondo magico, che richiama nel titolo l’omonima opera di Ernesto de Martino, anche se le implicazioni antropologiche risultano fragili e un po’ pretestuose e la ricostruzione d’epoca non va al di là di una corretta messa in scena televisiva. Caina, unico film italiano al recente Tallin Black Night Film Festival dove ha ricevuto anche un premio, opera prima di Stefano Amatucci tratto dall’omonimo romanzo di Davide Moranti che ha firmato con il regista la sceneggiatura, prodotta a low budget da Salvatore Suarato, è una favola nera dal forte impatto visivo.
Caina, interpretata da un’intensa Luisa Amatucci, in passato era una killer su commissione, uccideva con freddezza e agiva con disprezzo, era specializzata nell’ammazzare gli extracomunitari, perchè il suo è un animo xenofobo, violento e con un odio viscerale per tutto ciò che non appartiene alla sua lingua, alla sua razza e soprattutto alla sua religione. Ora Caina passa le sue notti in spiaggia dove fa un mestiere particolare, la “trovacadaveri”: il suo compito è quello di raccogliere tutti i corpi annegati degli extracomunitari che dall’Africa cercano di arrivare in Italia e che il mare riversa sulla riva: sente i morti parlare, avere paura, lamentarsi, ne ascolta le sofferenze, le angosce , le delusioni. I cadaveri arenati vengono smaltiti sciogliendoli nel cemento in un centro di smaltimento statale. Lei guadagna 15 al lordo, su ogni annegato. Nahiri, tunisino, anche lui fa il “trovacadaveri”, ma è abusivo. Insieme ad un gruppo di immigrati irregolari, per sopravvivere, vanno in giro rubando dalle rive i cadaveri degli immigrati, vendendoli sottobanco al centro di smaltimento grazie alla connivenza della sua dirigente, l’anziana signora Ziviello, (Isa Danieli) che opera nel malaffare. Nahiri non ci sta e abbandona il gruppo offrendosi di lavorare per Caina sottomettendosi a essa. Si scrutano diffidenti, si annusano come belve.
«Caina è una specie di sacerdotessa della morte che diffonde la sua omelia in mezzo a cadaveri, fantasmi che talvolta le rispondono – spiega Stefano Amatucci – per preservare la sceneggiatura da ogni deriva populistica e per raccontare una modernità che si sta facendo oscena, abbiamo immerso la storia in un contesto surrealistico, allucinato e fantapolitico».
Napoli Underground, infine, piccolo film indipendente finanziato in crowdfunding dall’associazione PensareFare, è una commedia ad episodi ambientati nella Napoli sotterranea, nel sottosuolo dei misteri.
Dice il regista Salvatore Polizzi, palermitano napoletanizzato: «Non è un mistero che la città di Napoli è lo scenario ideale per un film, ma ci sono luoghi ancora per lo più ignoti al pubblico cinematografico, come le numerose cavità naturali o artificiali del sottosuolo cittadino. Le catacombe di San Gennaro e San Gaudioso, il cimitero delle Fontanelle, il labirinto di canali che costituisce la “Napoli Sotterranea”, le grotte marine tufacee che caratterizzano la costa occidentale, la straordinaria CryptaNeapolitana e tomba di Virgilio sono solo alcuni esempi che possono tranquillamente competere con le bellezze di superficie». Attori napoletani conosciuti sono affiancati da attori non professionisti e spesso si vede.