«Non possiamo tirarci indietro, non possiamo evadere o scappare, è il nostro dovere. L’Italia faccia la sua parte, così come non ci tirammo indietro nel 2011». Giorgio Napolitano si schiera per un intervento «innanzitutto politico e diplomatico» in Libia. Prende la parola nell’aula del senato, dove ora siede nei banchi del gruppo delle autonomie. È la prima volta da quando è senatore di diritto. Lo fa, ironizza, perché nel dibattito è stato «gentilmente» tirato in ballo. E lo fa, lo si capisce al primo tornante dei suoi dieci minuti di denso intervento, per rimettere in ordine i pezzi della storia recente di questo paese, vicinissimi – l’intervento in Libia è di quattro anni fa – eppure già rimescolati dallo scaricabarile delle forze politiche che fino a ieri si accucciavano sotto la sua ala.

L’ex presidente replica, punto per punto, ai giornali della destra, alla sinistra e ai 5Stelle che gli attribuiscono la principale responsabilità nell’intervento italiano contro la Libia del 2011. Una lettura che però in queste ore traspare in filigrana anche nel campo democratico, che tende a scrollarsi il peso del rovesciamento del regime di Gheddafi, dopo anni di amicizia e affari, con le conseguenze oggi sotto gli occhi del mondo. Oggi tira un’altra aria. L’ex premier Massimo D’Alema ieri ha definito quella guerra «un errore». All’epoca il segretario del Pd Bersani diceva in piazza: «Ci siamo subordinati a un autocrate, ci siamo fatti umiliare e non abbiamo neanche la forza di fare una telefonata» incalzando un Berlusconi renitente – perché fresco di baciamano al raìs – all’intervento.

Oggi, per lo più da destra, l’addebito nei confronti dell’ex capo dello stato è di aver costretto un governo Berlusconi tentennante a sottostare agli interessi inglesi e francesi e partecipare alla guerra. «Gratuite polemiche», le definisce Napolitano. Poi ricostruisce con puntiglio la consecutio della scelta bellica decisa «nell’ambito di una comune assunzione di responsabilità» e «incentrata su chi nel nostro sistema ha la responsabilità decisionale in materia di politica estera e di difesa, e cioè il governo», tenuto conto delle risoluzioni di Camera e Senato (la polemica è all’indirizzo di Grillo per il quale la guerra fu anche formalmente decisa dal Colle). Su quela vicenda «ci fu un amplissimo consenso con la risoluzione approvata il 18 marzo da Camera e Senato». Il governo Berlusconi, ricostruisce l’ex presidente, decise di «adoperarsi perché l’operazione iniziata estemporaneamente da Francia e Regno unito rientrasse interamente nel quadro di gestione politica dell’alleanza atlantica da cui tutti ritenemmo l’Italia non potesse estranearsi». Semmai «l’errore più grave» della comunità internazionale è stato «il disimpegno dopo la caduta» di Gheddafi.

Poi Napolitano fa un passaggio delicato, di fatto una nuova rivendicazione dell’intervento. Lo fa riferendosi alle dichiarazioni del suo ex consigliere diplomatico ambasciatore Stefano Stefanini secondo il quale deve sentirsi da subito impegnata in Libia che a sua volta è «uno stato fallito» quindi ha, per l’art.51 dello statuto Onu «il diritto di naturale di autotutela individuale o collettiva» in caso di un attacco armato.

Forse uno Stato in Libia «non è mai esistito», riflette Napolitano, «non era uno stato l’esercizio del potere autocratico e personale del presidente Gheddafi sulla base di un certo sistema di rapporti ed equilibri con la moltitudine delle tribù e sulla base di un grande potere personale dovuto alla enorme liquidità che disponeva lo stato e per esso in realtà il presidente Gheddafi». Insomma la Libia di Gheddafi non era uno Stato, fermare la mattanza del raìs oltre che un dovere era un diritto.