Datato «luglio 1933», Un’assenza è per dichiarazione autoriale il primo racconto portato a compimento dalla diciassettenne Natalia Ginzburg dopo vari tentativi. Ed è questo il titolo che il curatore Domenico Scarpa ha dato al volume Un’assenza. Racconti, memorie, cronache 1933-1988 (Einaudi, pp. 366, euro 18) nel quale vengono riuniti una quarantina di pezzi, per la maggior parte sparsi e mai raccolti prima, con inediti: il racconto Tradimento, la prima versione 1933 di Settembre e il frammento Nel pomeriggio del 9 settembre; inediti anche alcuni corposi e interessantissimi stralci di scritti riportati nella postfazione.

Le due sezioni, «Racconti» e «Memorie e cronache», sono seguite da un’Appendice che include due testi inediti di Rocco Scotellaro sulla Ginzburg e la nota lettera scritta da Alba de Céspedes all’autrice in risposta all’articolo Discorso sulle donne (1948), anch’esso qui ricompreso. L’edizione si presenta arricchita di preziose note ai testi che indirizzano il lettore ad una puntuale contestualizzazione dei pezzi.
I soggetti sono vari e sono inanellati da un elemento comune: la volontà di memoria come espressione di determinazione etica. Molte di queste memorie nascono come inchieste, reportage, interventi militanti sulla condizione femminile, sulla vita degli operai nelle fabbriche torinesi, sul mondo contadino. «Fu la prima donna moderna che io conobbi il ’47, umana e spregiudicata, sensibilissima e dura, animalesca e provocante, ma anche tenuta dentro il corpo da un fascino agli occhi, al volto». Scotellaro coglieva nel ’52 un elemento che è tuttora essenziale per definire l’atteggiamento adottato dall’autrice nei confronti del mondo da rappresentare, atteggiamento improntato al rigore di chi ha fatto la scelta di campo definitiva: espungere l’ottica del «privato» e i torbidi dell’ego e puntare ad un’ottica corale. Prova ne sono anche gli attacchi, che talora hanno la forza spiazzante dell’apoftegma: «Uno che arriva a Matera gli pare una città qualunque», «In Abruzzo non c’è che due stagioni: l’estate e l’inverno», «Ho passato l’infanzia a giocare da sola in un giardino».

Un’assenza permette di tracciare il percorso compiuto per conquistare la sicurezza di una voce autonoma, quella voce che Scarpa elegge a cifra risolutoria del libro. Una voce che s’impegna a rendere chiaro il più oscuro dei grovigli e scioglie tutti i nodi sulla base di assunti categorici. La convinzione morale di dover scrivere in vista di un intento civile era stata la risposta dell’autrice al disagio e al senso di colpa provati da gran parte degli scrittori del secondo dopoguerra, narcisisticamente ripiegati su se stessi o privilegiati osservatori delle ingiustizie sociali. È noto che la scrittrice fu paziente di Ernst Bernhard («Diceva che mi creavo dei falsi doveri») e la memoria La mia psicanalisi va letta a specchio con il Discorso sulle donne.

La decisione di interrompere l’analisi e la conclusione del Discorso indicano che Natalia Ginzburg scelse la via impietosa e dura: recidere i propri torbidi e impegnarsi nel lavoro per sé e per le altre donne per non cadere più nel pozzo oscuro dell’infelicità. Alba de Céspedes le suggeriva di non aver paura di scendere nel pozzo: «al contrario di te, credo che questi pozzi siano la nostra forza», perché nel pozzo le donne hanno la possibilità di conoscere quel che gli uomini non conosceranno mai, e di far germogliare in se stesse il sentimento della pietà. Quel suggerimento non fu seguito.
La soluzione adottata dalla scrittrice coincideva con la scelta di riconquistare la libertà e, nel suo caso, la parola, perché chi possiede le parole non è né debole né schiavo: «un essere libero non casca quasi mai nel pozzo e non pensa così sempre a se stesso ma si occupa di tutte le cose importanti e serie che ci sono al mondo». Di quelle ferite cui seguì la scelta radicale, mantenuta con fermezza negli anni a venire, la raccolta esibisce non poche cicatrici.